Uncle Russ. L’uomo che accendeva le notti di Detroit
Immaginate Detroit nel cuore degli anni Sessanta: una metropoli industriale che ronza come un alveare furioso, con le catene di montaggio della Ford e della General Motors che sputano fuori automobili lustre destinate a conquistare l’America intera. Ma sotto quella facciata di acciaio e prosperità, la città ribolle di un’energia diversa, sotterranea, fatta di amplificatori urlanti, sudore e ribellione giovanile. È qui, in quel crocevia di Motown e rock’n’roll, che emerge la figura di Uncle Russ, l’organizzatore di eventi che trasformò i capannoni dismessi e i club fumosi in templi della controcultura. Non era un nome da prima pagina, il suo – Russell – ma per chi calpestava quelle strade, Uncle Russ era una leggenda vivente, un catalizzatore di notti indimenticabili.


Michigan, 9-10 dicembre 1966

25-26 novembre 1966

14-15 ottobre 1966
poster di Gary Grimshaw

Nato e cresciuto nei quartieri operai della Motor City, Russ non proveniva dalle élite culturali. Era un figlio della working class, forse un ex operaio delle fabbriche o un reduce della Seconda Guerra Mondiale, con quel fisico tarchiato e lo sguardo furbo che tradiva anni di notti insonni a imbastire serate. Negli anni Sessanta, mentre la scena musicale di Detroit esplodeva con leggende come John Lee Hooker o i nascenti MC5 – quei teppisti del garage rock che urlavano contro il sistema –, Uncle Russ fiutò l’aria del tempo. Organizzava eventi nei posti più impensati: il Grande Ballroom, con i suoi soffitti altissimi e l’eco di bassi che facevano tremare i muri; o il Eastown Theatre, un vecchio cinema riconvertito in arena per concerti che mescolavano rhythm and blues, soul e proto-punk. Non si limitava a vendere biglietti: curava l’intera esperienza, dai poster psichedelici stampati in fretta e furia nelle tipografie underground ai roadie che scaricavano furgoni nel cuore della notte.
Ricordate il 1967? L’anno del Grande Incendio, quando le rivolte razziali incendiarono la città, lasciando cicatrici profonde tra le strade di Woodward Avenue. Proprio in quel caos, Uncle Russ non si tirò indietro. Mise in piedi serate che univano bianchi e neri in un’ebbrezza collettiva, con band come i Stooges di Iggy Pop – allora ancora grezzi, selvaggi – che si scatenavano sul palco mentre fuori sirene di polizia squarciavano l’aria. Le sue erano notti di catarsi: corpi che si dimenavano sotto luci stroboscopiche, fumo di sigarette e marijuana che aleggiava denso, e un senso di libertà che contrastava con la cappa repressiva dell’America di Lyndon Johnson. Uncle Russ non era solo un promoter; era un mediatore culturale, un alchimista che fondeva il suono della Motown – quel groove levigato di Diana Ross e i Supremes – con l’acidità del rock psichedelico dei Grateful Dead in tour o dei primi esperimenti locali.
Ma chi era davvero quest’uomo? Le cronache lo dipingono come un tipo schivo, con baffi folti e una risata contagiosa, sempre in giro con un taccuino in tasca per annotare nomi di talenti da lanciare. Non firmava contratti milionari, come i magnati di Hollywood; i suoi eventi erano artigiani, sudati, spesso al limite della legalità – con la polizia che piombava per spegnere amplificatori troppo potenti o per sfrattare frotte di hippie. Eppure, durò. Fino alla fine del decennio, quando la scena si spostò verso ovest, a San Francisco, o si inasprì con il punk. Uncle Russ svanì piano, forse stanco, forse inghiottito dal declino di Detroit, quella città che dagli anni Ottanta in poi perse il suo splendore industriale.
Oggi, sfogliando archivi polverosi alla Detroit Public Library o intervistando ex musicisti ormai anziani, Uncle Russ appare come un’ombra affascinante: non un eroe da copertina, ma l’uomo senza il quale quelle notti non sarebbero state le stesse. Ci si chiede se, in fondo, non fosse lui il vero motore di quella Detroit ribelle – non le fabbriche, ma le sue serate, che accesero scintille destinate a illuminare il rock per generazioni. E voi, ci siete mai stati in un posto così?

21-22 Ottobre, 1966
poster di Gary Grimshaw

4-5 Novembre 1966
poster di Gary Grimshaw
Storie tipografiche dalle stanze del potere
Sembrano bizzarrie marginali, piccole manie del potere che si annoia fra una riunione e l’altra. E invece le scelte grafiche imposte alla pubblica amministrazione sono una finestra sorprendentemente nitida sulla psicologia dei governi, perché rivelano ciò che ogni potere teme davvero: il disordine dei segni, l’anarchia dello stile, l’idea che anche un font possa sottrarsi alla disciplina della politica. La storia, quando si posa sui dettagli, diventa più eloquente delle grandi dichiarazioni.
L’episodio recente e quasi burlesco del ritorno al Times New Roman imposto dal Dipartimento di Stato americano non è che l’ultima incarnazione di una lunga tradizione di decreti estetici travestiti da atti amministrativi. Ma per comprenderne il senso è utile volgere lo sguardo alle epoche in cui l’ossessione per la grafica fu tutt’altro che un capriccio.
Nel gennaio del 1941 Adolf Hitler, con un’ordinanza sorprendente perfino per i burocrati del Reich, mise al bando il carattere gotico e tutte le sue varianti. La Fraktur, per generazioni considerata la tipografia della “germanicità”, venne liquidata con una circolare del Reichsminister Joseph Goebbels come «Schwabacher Judenlettern», “lettere giudaiche”. La contraddizione brucia ancora oggi negli archivi: la grafia che nel mito nazionalista avrebbe dovuto incarnare la purezza della nazione veniva improvvisamente dichiarata inadatta, troppo complessa, troppo locale per un impero che voleva esportare la sua egemonia. La scelta del più internazionale Antiqua non fu una faccenda estetica, ma geopolitica: l’uniformità grafica doveva facilitare il dominio amministrativo sui territori conquistati, permettere modulistica leggibile, modulare, traducibile. La tipografia come ingegneria imperiale.
Anche l’Unione Sovietica, pur da un fronte politico opposto, condivise la stessa convinzione: lo Stato moderno, per funzionare, ha bisogno di un alfabeto disciplinato. Nel 1918 una commissione guidata dal Commissariato dell’Istruzione riformò la scrittura cirillica, eliminando lettere ridondanti e imponendo norme precise per la redazione dei documenti. L’estetica, nel caso sovietico, non era un orpello ma una dichiarazione ideologica: la grafica amministrativa doveva rispecchiare la razionalità dell’ordine socialista. Gli stessi manifesti costruttivisti, con le loro diagonali, i loro caratteri sans-serif e l’ossessione per la leggibilità, vennero integrati nei manuali tipografici governativi, creando un’identità visiva che ancora oggi si riconosce nei timbri degli archivi di Stato. La grafica come disciplina delle masse, come semplificazione visiva del futuro.
L’Italia fascista non rimase indifferente a questa liturgia della forma. Negli anni Trenta, nel pieno della re-invenzione dell’estetica nazionale, il Ministero della Cultura Popolare emanò linee guida formali per modulistica, timbri, impaginazioni e perfino per il disegno delle intestazioni ministeriali. Il regime comprese con acutezza propagandistica che la forma grafica è un linguaggio politico silenzioso. La monumentalità del carattere “littorio”, la geometria severa delle iscrizioni pubbliche, la scelta perentoria di capitali squadrate erano concepite per trasmettere un’idea di solidità eterna e inevitabile. Anche qui, come nel Reich, la grafica non era un gusto: era una terapia autoritaria contro le crepe del reale.
Ma il potere non opera solo nei regimi che vorrebbero farsi eterni. Nelle democrazie, dove l’autorità ha bisogno di essere riconosciuta e non temuta, le imposizioni grafiche assumono una forma più morbida, ma altrettanto rivelatrice. Quando nel 1963 il governo britannico affidò a Margaret Calvert e Jock Kinneir la riforma completa della segnaletica stradale, non si limitò a introdurre un nuovo sistema di icone: definì uno dei primi casi moderni di “identità visiva di Stato”, un alfabeto e un design unificato per dire a milioni di cittadini che lo Stato era presente, leggibile, affidabile. Il potere, qui, si esprimeva nella cura della leggibilità: la democrazia come grafica ben fatta.
Negli Stati Uniti lo stesso accadde nel 1977, quando la General Services Administration codificò nel Federal Graphics Improvement Program un intero sistema di identità visiva per le agenzie federali. Manuali, colori, formati, logotipi: tutto doveva contribuire a una percezione coerente dell’amministrazione. Era la risposta istituzionale all’epoca del sospetto post-Watergate: restaurare la fiducia con la grammatica della grafica anziché con roboanti proclami.
È in questa lunga genealogia che va collocato il recente braccio di ferro tipografico a Washington. La vicenda del Calibri destituito dal Times New Roman ha un’aria minore, quasi farsesca, ma rivela la stessa dinamica antica: il potere non sopporta il caos dei segni. Spostare una burocrazia da un font all’altro significa ridefinire il modo in cui lo Stato appare a se stesso, e dunque come si rappresenta ai cittadini. La scelta fra un sans-serif moderno e un roman tradizionale diventa così una battaglia simbolica fra due idee di nazione: una che si affida alla leggibilità contemporanea e un’altra che predilige la gravità della forma ereditata.
Il paradosso è che queste microstorie della grafica governativa mostrano quanto l’estetica sia un luogo politico più vivo della retorica ufficiale. Un font proibito, una lettera eliminata, una segnaletica ripensata parlano con una sincerità che la politica raramente si concede. Indicano, senza giri di parole, la direzione del potere: centralizzare o semplificare, intimidire o rassicurare, esportare o contenere. La grafica, quando entra in un decreto, smette di essere un dettaglio e diventa un atto di governo.
E ogni volta che un ministro o un presidente posa la penna su una linea guida tipografica, ci ricorda una verità antica: lo Stato, come ogni organismo che vuole durare, si cura prima di tutto della propria forma. Perché chi controlla l’aspetto delle parole finisce sempre, in qualche modo, per controllare anche ciò che quelle parole possono significare.
I Diggers e il funerale del denaro
C’è una fotografia che basta da sola a raccontare un intero decennio: un ragazzo con i baffoni, spettinato, un’espressione a metà tra l’estasi e l’incoscienza, in sella a una moto, mentre una ragazza — altrettanto giovane — sta in piedi sul sellino posteriore, le braccia aperte, l’aria di chi non teme niente perché non ha ancora deciso se crede nella realtà o no. Sono “Hairy Henry” Kot e Phyllis Willner il 17 dicembre 1966, a San Francisco, durante la “Death of Money March”, un titolo che sembra uscito da un sogno marxista orchestrato da un gruppo di teatranti sotto LSD.


Foto di Gene Anthony

Foto di Phyllis Willner


I Diggers — perché questo è il nome della compagnia, del collettivo, della setta o della banda, a seconda di chi racconta la storia — avevano deciso che il denaro doveva morire. Non in senso figurato, ma proprio nella pratica quotidiana: abolirlo, restituirlo al nulla da cui era venuto, celebrarne un funerale per scoprire se il mondo poteva ancora esistere senza. E così, quel giorno, il quartiere Haight-Ashbury diventò un palcoscenico improvvisato, un happening in forma di processione. Una bara simbolica portata a spalla, un carro funebre improvvisato, musica classica che si mescolava ai rumori della strada e ai suoni acidi delle prime chitarre psichedeliche che uscivano dai garage vicini. Tutto era simultaneo, tutto era performance.
Phyllis Willner era arrivata a San Francisco da New York pochi mesi prima, scappata da casa, come migliaia di altri ragazzi che avevano sentito un richiamo irrefrenabile che diceva che il mondo, quello vero, non poteva essere quello dei genitori. Aveva diciannove anni e si era innamorata subito dei Diggers: di quella loro idea che il teatro non dovesse stare sul palco ma in strada, che ogni gesto potesse essere un atto politico se abbastanza assurdo, se abbastanza poetico. “Free food, free store, free love” — ma dietro lo slogan, una pratica, un tentativo quasi ascetico di vivere senza economia, di inventare un’economia del dono in una città che stava diventando la capitale mondiale del consumo spirituale.

Hairy Henry era invece una specie di figura liminale: metà hippy, metà Hell’s Angel, una presenza che oscillava fra il teatro di strada e l’anarchia pura. Quel giorno guidava una motocicletta, e Phyllis, come in un gesto di pura allegoria, stava in piedi dietro di lui, le braccia aperte, in bilico tra equilibrio e caduta. Fu arrestato poco dopo, per “condotta pericolosa”.
Il “Death of Money March” fu il tentativo più esplicito dei Diggers di dichiarare guerra al simbolo stesso del sistema. Non chiedevano soldi, non li volevano: chiedevano di seppellirli. Nelle settimane precedenti avevano diffuso volantini stampati nella loro tipografia clandestina: “Il denaro è un male inutile, un’energia pervertita con scritto. “Portate il vostro denaro ai Diggers: lo libereremo”. Liberarlo significava redistribuirlo, oppure bruciarlo, oppure trasformarlo in qualcos’altro — l’azione stessa era più importante dell’esito. Come sempre nei loro gesti, l’assurdità era una strategia: destabilizzare attraverso la messa in scena, far deragliare il reale con una parodia troppo letterale per essere ignorata.
La parata si mosse lungo Haight Street come un corteo funebre di un’altra epoca, pieno di costumi, maschere, improvvisazioni, e con quella specie di sacralità post-teatrale che solo le strade di San Francisco, in quell’anno preciso, potevano ospitare. La musica di Chopin — la Marcia funebre — risuonava da un altoparlante montato su un furgone, seguita da slogan, improvvisazioni poetiche, e un diffuso senso di gioco che, come spesso accadeva con i Diggers, era anche una forma di performance teatrale. C’era qualcosa di religioso nella scena, un’estetica della rinuncia recitata davanti a un pubblico distratto di turisti e poliziotti, e di altri giovani che guardavano cercando di capire se quella fosse arte, protesta o semplice follia. Ho scritto di casi contemporanei di questo approccio a proposito delle proteste No King in altre sedi.
Quando la polizia intervenne e arrestò Henry, la processione non si disperse, semplicemente si spostò, come in un rituale metamorfico, davanti al commissariato, e lì continuò la recita. I Diggers improvvisarono una colletta per pagare la cauzione — in quel preciso momento, la “morte del denaro” si trasformò in una parodia perfetta del suo ritorno, il denaro necessario per liberare chi era stato arrestato mentre celebrava la sua fine. Era l’essenza del loro teatro politico:
mettere in scena il paradosso fino al punto in cui la realtà, esausta, non potesse più reggere la coerenza.
Visti oggi, Phyllis e Henry non sono solo due figure marginali della storia della controcultura: sono frammenti viventi di una tensione irripetibile, quella tra utopia e ironia, tra il bisogno di credere in un altro mondo e la consapevolezza tragica che ogni gesto rivoluzionario si consuma nell’istante in cui diventa spettacolo. La loro immagine, congelata in quella fotografia, è la sintesi di un’idea che i Diggers avevano portato all’estremo:
non si può cambiare il mondo se non si cambia il linguaggio con cui lo si immagina.
La “Death of Money March” fu, in definitiva, un atto estetico più che politico, un happening che tentava di tradurre il disgusto per il denaro in liturgia pubblica, in rito urbano. In quell’istante, per qualche ora, Haight-Ashbury smise di essere un quartiere e diventò una metafora:
la prova generale di un mondo possibile, una mini-utopia performativa dove ogni gesto era contemporaneamente ironico, sacro e disperato.
E forse è per questo che quella foto continua a affascinare ancora oggi: perché non mostra solo due giovani belli e folli, ma l’istante in cui la libertà stessa — come il denaro, come l’arte, come ogni simbolo — fu messa in scena, uccisa, e poi fatta risorgere sul ciglio di una strada.

PERCHÉ LA CULTURA È FERMA, E COSA POSSIAMO FARE PER SMUOVERLA
Un articolo ispirato, ampliato e criticamente intrecciato con l’estratto di W. David Marx su The Atlantic il 25.11.2025.
Nel 2009, Fredric Jameson scriveva che il postmoderno viveva di “pastiche senza profondità”, una citazione che oggi ritorna come un eco profondo e un po’ inquietante. Quindici anni dopo, lo scenario che descriveva sembra diventato non solo il linguaggio dell’arte contemporanea, ma la grammatica stessa del nostro vivere culturale.
Siamo immersi in un ambiente che produce contenuti senza tregua — tutti intercambiabili, tutti bruciati in pochi minuti. Nel leggere, recentemente, l’estratto del nuovo libro di W. David Marx, Blank Space, pubblicato su The Atlantic, la sensazione è che questa “fenomenologia della saturazione” non sia solo una diagnosi accademica, ma una condizione esistenziale.
Marx sostiene infatti che il vero problema non è riconducibile all’eccesso di produzione culturale, ma alla sua incapacità di generare rotture. In un mondo in cui tutto può essere remixato, appropriato, ricodificato, la cultura sembra aver perso la tensione verso il nuovo. È l’inerzia che Mark Fisher chiamava “lento cancellarsi del futuro”, quella la sensazione che non potrà emergere niente che non sembri già successo. Fisher lo applicava alla musica — nessuno più inventa un suono, si inventano solo nostalgie — ma è un’idea ormai esportabile ovunque.
Il paradosso è che abbiamo più strumenti, più mezzi, più possibilità di sperimentare rispetto a qualsiasi altra generazione, ma meno capacità di produrre ciò che davvero rompe, devìa, crea uno scarto.

È interessante confrontare l’analisi di Marx con posizioni opposte, come quella di Douglas Rushkoff, che in Present Shock sosteneva che il problema non è l’assenza di futuro, ma la tirannia del presente: tutto è qui, ora, compresso in un istante eterno. Rushkoff vedeva in questa orizzontalità una potenzialità liberatoria; Marx, al contrario, la legge come una paralisi. Eppure, entrambi concordano su un elemento cruciale:
la digitalizzazione non è stata solo un cambiamento tecnologico, ma una trasformazione antropologica. Ha cambiato il modo in cui immaginiamo il tempo.
L’arte contemporanea sembra confermare questi segnali. Pensiamo a figure come Amalia Ulman, la cui performance Excellences & Perfections ha mostrato come identità e narrazione siano oggi materiali di costruzione più che territori da esplorare. O agli scultori digitali come Jon Rafman, che setacciano il cyberspazio più per archiviarne i fantasmi che per costruire mondi nuovi. O ancora agli artisti NFT della prima ora, la cui grande promessa di rivoluzione è stata rapidamente risucchiata dentro la più antica delle dinamiche: la speculazione.
In ambito musicale, artisti come Arca e Yves Tumor insistono con coraggio su ibridazioni radicali, ma rimangono isole, eccezioni brillanti, ancora incapaci però di generare un vero e proprio movimento. La sensazione generale è quella di una grande stanchezza formale, un contesto in cui persino ciò che appare sperimentale spesso non fa altro che giocare con codici già noti. Marx, nel suo testo, invita a recuperare una mentalità “pre-kitsch”, per usare una formula sintetica: un atteggiamento disposto a mettere in discussione le forme più che a riprodurre estetiche riconoscibili. È una proposta che si avvicina, per certi versi, alle idee di Boris Groys, quando afferma che
l’arte veramente contemporanea non è quella che produce nuove immagini, ma quella che produce nuovi regimi del visibile.
Ma questa prospettiva è fragile. Significa non soltanto proteggere l’avanguardia, ma creare le condizioni perché possa emergere e questo è oggi il punto più critico.

Il mercato culturale — lo sappiamo dai tempi di Theodor W.Adorno, ma oggi con esiti aggravati — non premia la complessità, premia invece ciò che può essere dirompente senza essere difficile, controverso senza essere realmente scomodo, strano purché gestibile. E così, paradossalmente, l’industria culturale produce una dose controllata di eccentricità, una stravaganza sterilizzata che non minaccia alcun ordine. È il motivo per cui personalità come Ye, Elon Musk o Donald Trump finiscono per incarnare, nel bene e nel male, un’idea di “genio culturale” non per ciò che creano, ma per ciò che muovono.
Sono contenuti viventi, forme di rumore istituzionalizzato che sostituiscono l’arte con la performance continua.
Pensa a un’opera d’arte che diventa virale più per lo scandalo che per il suo contenuto, o a una mostra il cui unico scopo sembra essere generare hashtag e polarizzare l’opinione online. Questi non sono più semplici lavori culturali, ma “contenuti viventi”: organismi progettati per nutrirsi di attenzione e riprodursi nelle discussioni. Il loro meccanismo – il rumore – è così previsto e sistematico da essere diventato una prassi istituzionale. In questo processo, l’arte (fatta di silenzio, contemplazione, significato) viene rimpiazzata dalla sua performance mediatica perenne, che deve sempre essere “accesa” per giustificare la propria esistenza.
Per comprendere questo spostamento, può essere utile ricordare le teorie di Neil Postman sulla spettacolarizzazione dell’informazione: quando tutto deve intrattenere, tutto perde significato, e quando il significato scompare, l’unico criterio rimasto è la visibilità. In questo senso l’analisi di Marx non è nostalgica, ma pragmatica:
non possiamo aspettarci che il mercato, da solo, produca il nuovo. Il mercato non innova, consolida. Il mercato non rischia, replica.
L’innovazione — quella vera, quella costosa, quella che spesso fallisce — nasce da comunità ristrette, autonome, a volte persino antagoniste. È qui che il discorso si intreccia con le subculture contemporanee. Esistono ancora veri margini? Sì, ma spesso non sono più spazi fisici. Molte micro-scene creative vivono dentro server come Discord, archivi criptati, newsletter indipendenti, cartografie di reti semi-private. Pensiamo alla scena post-internet che si sviluppa intorno a The Wrong Biennale, o ai collettivi come New Models, che cercano di pensare una cultura non allineata alle logiche delle piattaforme.
Il problema è che l’ambiente digitale tende a rendere immediatamente visibile ciò che prima poteva crescere in silenzio. La lentezza, l’opacità, il segreto — che sono parte necessaria di qualsiasi avanguardia — sono diventati quasi impossibili da praticare.

Qui le idee di Marx dialogano sorprendentemente con quelle di Anna Lowenhaupt Tsing, la quale in The Mushroom at the End of the World descrive l’avanguardia come un ecologia, non come un movimento. Una foresta complessa fatta di simbiosi, contaminazioni, radicalità marginali. E forse oggi dovremmo pensare davvero la cultura come un ecosistema, non come una timeline che scorre. Il suo appello a creare un terroir culturale significa proprio questo: servono ecosistemi vivi, non piattaforme. Serve un terreno che protegga le differenze senza trasformarle in prodotti immediati. Il che non implica romanticizzare il margine. Le micro-scene creative sono sempre state fragili, precarie, spesso autodistruttive. Ma erano anche laboratori di immaginazione. Non si tratta di replicare il passato: non avremo un nuovo punk perché non esiste più il mondo che l’ha generato. Ma possiamo generare uno strappo analogo, se accettiamo l’idea che la cultura viva nella tensione, non nella ripetizione. In questo senso, il discorso di Marx si avvicina alle riflessioni di Claire Bishop sulla necessità di un’arte che non si limiti a “interagire”, ma che torni a essere conflittuale, storicamente situata, antagonista. La cultura non si muove se non incontra resistenza. E oggi la resistenza non è tanto contro il potere politico, quanto contro l’indifferenza algoritmica. Alla fine, ciò che quest’analisi chiede al lettore è una decisione. Non possiamo delegare la responsabilità del futuro culturale alle grandi piattaforme, ai critici compiacenti o ai trend virali. La domanda è un’altra: siamo disposti a sostenere opere che non hanno ancora un valore? A dare spazio a forme che non promettono successo, ma solo rischio? A rendere di nuovo possibile la stranezza?
Forse il futuro della cultura dipende da questo: dalla nostra capacità di non desiderare solo ciò che possiamo già capire. Dalla disponibilità a essere spettatori meno comodi e più curiosi. Dalla volontà di lasciare che qualcosa — qualcuno — si sviluppi fuori dagli occhi del mondo, nel buio fertile da cui è sempre nata ogni vera novità.
Tutte le immagini sono ©️Filip Hodas

Tom Sincavitch: l’uomo che accese la miccia
Tom Sincavitch. Il nome arriva come una scheggia di carta ingiallita, come un timbro apposto su un foglio che ha attraversato le stagioni di una città e di un’epoca. È il nome di un illustratore commerciale di Detroit che, alla fine degli anni Sessanta, si ritrova a occupare un incrocio inatteso: tra la pratica quotidiana del mestiere grafico e la dimensione pubblica della dissidenza politica. Non è un artista “di gallerie”, non è un nome che campeggia nelle storie ufficiali dell’arte americana. È, piuttosto la figura che permette di leggere dall’interno un fenomeno, quello della grafica dell’underground, come veicolo di cultura politica, la stampa alternativa come luogo di produzione di immaginario.
Sincavitch emerge dalla periferia di quelle storie che si intrecciano tra musica, stampa alternativa, movimenti studenteschi e comunità radicali. È descritto nelle fonti dell’epoca come commercial artist: professionista del layout e dell’illustrazione per stampa.
Tom Sincavitch, come molti altri grafici underground di quegli anni, transita tra commesse commerciali e impegno diretto in organi della stampa alternativa. La novità sta nel modo in cui la sua immagine si cristallizza in una copertina.

Calendario dell’ottobre 1968 di Tom Sincavitch come quarta di copertina del quotidiano Fifth Estate di Detroit.

Idem.
La copertina del Fifth Estate datata 1 gennaio 1968 è la prova più tangibile della sua impronta. Un foglio a tutta pagina che non nasconde le sue ambizioni: è un’opera che mescola estetica psichedelica e agitazione politica, che sovrappone simboli americani, ritratti, raggi solari stilizzati, pugni chiusi e slogan. Le New Years Resolutions stampate sul frontespizio non sono innocue dichiarazioni di buona volontà; sono piuttosto un manifesto interiore, un collage di ordini contrari: da Legalize marijuana a Overthrow the government, da Make love, not war a invettive assai più aspre. La grafica è tagliente, nervosa, ed è pensata per essere letta ad alta voce. La copertina non è semplice ornamento: è strategia di comunicazione, dispositivo di identificazione collettiva, e il fatto che quella copia venne spedita a figure d’aria affine come Mad Peck è indicazione tangibile delle reti: i fogli rilegavano comunità distanti, permettevano lo scambio di simboli e di consapevolezze.
Se la copertina racconta l’arte come luogo di intervento, la vicenda personale di Sincavitch racconta l’arte come scelta etica che diventa gesto politico.
Nell’anno seguente, il 1969, la sua storia prende una piega pubblica e simbolica. Sincavitch, che resta formalmente riservista nell’esercito americano — una condizione che molti giovani americani vivevano in quegli anni tra lavoro, coscrizione e attivismo — si rifiuta di sottoporsi a un addestramento che percepisce come comportamento repressivo e razzista. La protesta culmina con la sua decisione di cercare asilo nella St. Joseph’s Episcopal Church di Detroit, un gesto che avvicina la sua storia a quella di altri altri obiettori di coscienza e trasforma la singola scelta in un atto pubblico.

Illustrazione di Tom Sincavitch sulla copertina del numero del 1° gennaio 1968 del quotidiano Fifth Estate di Detroit.
Il 10 marzo 1969 la chiesa si trasforma in scena di una protesta corale: decine di persone entrano con cartellini — “I am Tom Sincavitch” — e dichiarano così solidarietà e identificazione. L’immagine della folla che dichiara di essere lui è semplice e potente. Non si tratta soltanto di proteggere un uomo da un’azione repressiva dello Stato, ma di affermare una soggettività collettiva, un rifiuto condiviso del comando militare. La reazione dello Stato è altrettanto netta con le forze federali che irrompono nell’edificio. Gli arresti si consumano davanti alla chiesa, la vicenda finisce in tribunale. Le accuse, nell’ordine legale, saranno diverse: AWOL, ovvero assenza ingiustificata; nella dimensione politica, invece, la vicenda rimane segno di un dissenso che si esprime nelle pieghe del quotidiano e che usa i simboli per amplificare la propria voce.
Questo intreccio tra immagine e azione è la cifra che rende Sincavitch interessante per chi studia l’estetica dell’underground. Non perché abbia lasciato una sterminata produzione, anzi… ma perché la sua opera – in questo a mio avviso affine alla figura di Emory Douglas – mostra come la grafica possa essere pratica di formazione dell’immaginario collettivo.
Sincavitch si collega in questo, anche ad una tradizione più ampia, quella del poster artist che unisce il linguaggio della pubblicità alla pretesa di trasformare la realtà politica.

Rivisitazione del logo della rivista The Fifth Estate di Tom Sincavitch, 1969
Nel registrare le tracce del suo lavoro emerge una lezione per chi guarda indietro e per chi oggi prova a leggere il presente.
L’underground degli anni Sessanta fu rete di scambi: artigiani della comunicazione, musicisti, attivisti, redazioni di carta ciclostilata. Ogni foglio che circolava era al tempo stesso prodotto culturale e strumento di mobilitazione.
Sincavitch, con la sua formazione da artista commerciale, rappresenta la figura che lavora con il mezzo e che in quel lavoro esprime un giudizio etico. L’immagine, per lui, non è mai neutra; è atto.
Un aneddoto conferma questa relazione tra immagine e rete. La copia della rivista inviata a Mad Peck, celebre cartoonist e figura dell’underground degli Stati Uniti, fu accompagnata da un francobollo e giunse come segnale di riconoscimento tra colleghi di una stagione. Quel gesto di spedire una copertina a un altro artista fu allo stesso tempo un ringraziamento e una chiamata: le riviste dell’epoca vivevano di questi scambi, che rendevano visibile un universo sgangherato e profondo, fatto di brotherhood artistica e di solidarietà politica. Le tracce materiali — la carta, il francobollo, il timbro — restano oggi testimoni importanti di una circolazione culturale che passava anche per i più umili strumenti postali.

Copertina di Tom Sincavitch sul numero del 1° ottobre 1970 del quotidiano Fifth Estate di Detroit
Da allora il tempo ha fatto il suo lavoro: molte figure sono state assorbite nella memoria collettiva, altre sono rimaste sul margine. La forza di un nome come quello di Tom Sincavitch sta nell’essere memoria di quella soglia.
Oggi, nella nostra contemporaneità in the flow, il senso di quella esperienza è duplice. Da un lato, ci ricorda che la grafica non è un ornamento, ma una forma di discorso; dall’altro, ci ammonisce sulla fragilità di quei circuiti di solidarietà che un tempo passavano per le riviste autoprodotte; circuiti che oggi rischiano di essere schiacciati, stritolati dalla folle corsa.
Rileggere la vicenda di Sincavitch significa dunque restituire spessore storico a un’idea semplice ma potente: che l’immagine è strumento nel mondo. Che non tutte le vite che hanno fatto questo percorso entrano nelle grandi antologie; molte restano annotate in archivi, pagine ingiallite di giornali, copertine ridotte quasi in polvere. Ma è proprio da quelle superfici che si può ricostruire una storia delle forme: come si costruiscono identità collettive, come si trasmettono pratiche di dissenso, quale ruolo ha la grafica nella costruzione di un immaginario politico. In questo senso, Tom Sincavitch occupa un posto più grande di quanto la sua fama — per così dire — suggerirebbe. Non è icona in senso eroico, ma figura di transito, riferimento per chi vuole capire come l’arte dei piccoli fogli abbia contribuito a riscrivere la grammatica della contestazione americana. E questo, per chi studia l’underground e la sua estetica, è già molto.

Poster di Tom Sincavitch
Smelly Rob n.1 – La Fuga: Dalle Radici Underground alla Grafica Skate
È sempre difficile parlare del lavoro di chi, sia pur a distanza e con mille limitazioni, mi piace considerare un amico, non fosse altro per le numerose affinità che negli anni ho scoperto accomunarci, quindi ritengo che la cosa migliore sia premere play in loop a Captain Beefheart & His Magic Band con il suo Zig Zag Wanderer, mollare gli ormeggi e lasciare andare la tastiera dove vuole, senza tante scuse e spiegazioni.
L’amico in questione è Joe Tamponi, illustratore sardo classe ’88 che da sempre caratterizza i suoi lavori per una ostinata filosofia do it yourself ed una approfondita ricerca stilistica che trae linfa vitale dalla storia della grafica underground più sconnessa, colorata e, per certi versi psichedelica.
Tutta la sua opera si può ricondurre ad una visione – sia pur assai personale – del filone lowbrow, profondamente influenzata dalla grafica punk e soprattutto dallo skateboard degli anni ’80 e ’90. Tamponi infatti non nasconde il suo debito artistico, citando apertamente l’impatto di artisti come Jim Phillips e suo figlio Jimbo anche in questa sua prima opera fumettistica a cui, stando al progetto complessivo, dovranno seguire altre due albi.

Smelly Rob n.1 – La Fuga
Smelly Rob n.1 – La Fuga – questo è il titolo dello smilzo librettino che trasuda passione e colore – si colloca a mio avviso come un’opera assai distintiva, almeno nel panorama del fumetto indipendente italiano, agendo come un ponte stilistico tra la tradizione della controcultura sixties e l’estetica skate-punk americana.
La narrazione visiva del fumetto trae ovviamente ispirazione dalle origini dell’underground comix di artisti come il leggendario Robert Crumb, mantenendone l’immediatezza, l’irriverenza e la cruda carica espressiva.
A livello grafico, Tamponi recupera l’energia distorta e surreale della poster art psichedelica degli anni Sessanta (vedi i celeberrimi Big 5: Wes Wilson, Stanley Mouse, Vistor Moscoso, Alton Kelley e Rick Griffin) rivisitandone le linee ed i colori vibranti, i personaggi deformati e un senso generale di allucinazione. Questa estetica, che non casualmente riprende la scia di Ed Roth e del suo Rat Fink continuando la tradizione del “soggetto-topo”, si sposa con l’estetica del già citato Jim Phillips, celebre per aver definito l’iconografia di Santa Cruz Skateboards (inclusa la celebre Screaming Hand).

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Il risultato è una fusione di arte psichedelica e cruda energia del punk/skate, che veicola il tema centrale del fumetto – la Fuga – come atto di resistenza contro il conformismo e il sistema, anche in questo caso, ripercorrendo strade tracciate dai padri nobili dell’underground quali il Jack Kerouac di On the Road o l’Hunter S.Thompson del delirante Fear and Loathing in Las Vegas.
Insomma, quello di Joe Tamponi è, da un lato, un lavoro necessario per chi desidera comprendere come l’eredità della grafica underground più ribelle continui a trovare sempre nuove voci nell’editoria indipendente contemporanea.
Dall’altro, rappresenta una sfida lanciata a tutti coloro i quali si nascondono dietro agli enormi limiti e alle gravi mancanze della “scena italiana” – sempre sorda a dar voce a certe estetiche – mostrando come sia possibile (anche “da noi”) mettere in circolo grafiche, stili e gusti non allineati.

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La voce che non si vede: una storia
Nel 1979, durante le riprese di una trasmissione della BBC, un tecnico del suono decise per gioco di commentare a bassa voce ciò che stava succedendo in studio, mentre un conduttore insolitamente rigido tentava di mantenere il controllo della diretta. La storia racconta che, nella sala regia, il produttore scoppiò a ridere sentendo quella voce abusiva infilarsi tra le pieghe del protocollo televisivo. Non andò mai in onda, certo, ma in quel minuscolo cortocircuito stava già germogliando l’idea della voce fuori campo come frizione, come irruzione dell’imprevisto nell’ordine prestabilito del linguaggio televisivo. Una voce che non si vede, e proprio per questo diventa più forte, più affilata, più libera.

Nieves González
Da lì, la storia di questo stratagemma comunicativo si allarga in molte direzioni, quasi come un fiume che, invece di scendere dritto, continui a ramificarsi. Negli anni Cinquanta, negli Stati Uniti del boom mediatico, la voice-over nacque come strumento di autorevolezza: pensiamo a Walter Cronkite, ai documentari educativi della CBS, ai cinegiornali che avevano bisogno di una voce-guida capace di trasformare la realtà in narrazione ordinata. Era la voce del potere paternalistico, una voce che spiegava il mondo come se il mondo fosse un mobile Ikea con istruzioni chiare e semplici. Il sociologo Harold Lasswell avrebbe letto tutto questo come la forma perfetta del modello trasmissivo: un emittente forte, un messaggio limpido, un ricevente passivo, la voce come strumento di sincronizzazione emotiva della massa. Poi arrivarono gli anni Settanta e la televisione europea iniziò a giocare con la voce fuori campo come contrappunto ironico. In Francia, Antoine de Caunes e l’équipe di Rapido sperimentarono una narrazione che non commentava semplicemente le immagini, ma le contraddiceva. In Gran Bretagna, il Monty Python’s Flying Circus infilava voci che sembravano provenire da luoghi sconosciuti, fuori dal quadro, fuori dal racconto. Era la voce che rompeva la quarta parete senza bisogno di apparire, come se fosse l’eco di un narratore clandestino nascosto dietro una tenda. Qui entrano in gioco le teorie di Raymond Williams: la televisione non è solo ciò che mostra, ma ciò che scorre. La voce fuori campo diventa corrente sotterranea, una specie di “flow” che modula la percezione dello spettatore, creandogli un secondo paesaggio mentale.

Nieves González
E poi, certo, l’Italia, e qui il discorso diventa quasi antropologico perché con la Gialappa’s Band, a partire da quel 1986 di Mai Dire Banzai, la voce fuori campo smette di essere un accessorio e diventa il protagonista invisibile. La trovata geniale è che la voce non si limita a narrare, ma anzi, giudica, distorce, a spesso deraglia. È la voce del bar all’angolo, il brusio ironico di una cultura che non crede più nella solennità dello schermo televisivo. La Gialappa’s prende un format giapponese e lo capovolge: lo spettacolo non è più quello che accade sullo schermo, ma quello che le voci ne fanno e che tu non vedi. È quello che Umberto Eco chiamerebbe “iper-interpretazione umoristica”: la voce off come dispositivo di straniamento, come lente deformante che invita lo spettatore a non fidarsi mai del testo ufficiale. In altri luoghi del mondo, nello stesso periodo, succedeva qualcosa di analogo: Mystery Science Theater 3000 negli Stati Uniti, con il suo commento ironico ai vecchi film di serie B; Clive James on Television nel Regno Unito, con quella voce lucida e tagliente che svelava l’assurdo del palinsesto. Tutte forme in cui la voce fuori campo diventa coscienza critica, strumento metatestuale, vera protagonista della costruzione del significato. Secondo le teorie di Stuart Hall, qui la comunicazione non è più unidirezionale: la voce off suggerisce una lettura oppositional, spinge lo spettatore a decodificare il messaggio a modo proprio, a non accettare la versione ufficiale.

Nieves González
Con gli anni Duemila, la voce fuori campo attraversa un’altra mutazione. Nelle docu-serie, da Planet Earth fino ai prodotti più recenti di Netflix, ritorna come strumento di immersione e meraviglia; nei talent show come MasterChef diventa un bisturi narrativo; nelle serie comedy, da Arrested Development a Modern Family, assume il ruolo di narratore ironico, colui che tiene insieme brandelli di racconto e al tempo stesso li scompone. È un’ombra parlante che accompagna lo spettatore ricordandogli che ogni immagine, anche la più solida, è un artificio. E allora, più che una tecnica narrativa, la voce fuori campo diventa un vero indizio sociologico, il sintomo di qualcosa che riguarda noi più che la televisione. Perché — ed è qui che la questione si fa spinosa — la voce off non parla alle immagini: parla alla nostra fiducia. O meglio, alla nostra mancanza di fiducia. Nella sua natura invisibile si nasconde un paradosso perfetto: un medium che sottrae il corpo del parlante per moltiplicarne l’autorità, o per distruggerla. Una prima tesi, volutamente scomoda, è che la voce fuori campo non è mai davvero “fuori”: che abiti cioè il medesimo spazio simbolico delle immagini, ma ne rappresenti l’inconscio. Usata in modo istituzionale — i documentari, i reportage, i programmi pedagogici — funziona come ciò che Niklas Luhmann chiamerebbe un dispositivo di “riduzione della complessità”: la voce è lì per dirci che il mondo è interpretabile, che l’immagine non basta, che serve un garante. È una sorta di “stampella epistemologica” che ci consente di credere nel racconto. Ma quando la voce assume invece la funzione ironica, corrosiva, straniante (come nel caso della Gialappa’s o delle forme satiriche anglosassoni), allora opera in direzione opposta: non riduce la complessità, la espone e la amplifica. La voce diventa il “fantasma” che incrina la fiducia nella scena ufficiale, il tarlo che ricorda allo spettatore che la televisione non è mai neutra, che ogni frame è un artificio.

Nieves González
La seconda tesi, più radicale, è che la voce fuori campo non è semplicemente un commento: è la materializzazione dei “buchi neri” del sistema mediale. È ciò che parla quando il medium non sa più come spiegarsi. Potremmo dire che la voice-over agisce come un protocollo di emergenza del racconto: interviene dove l’immagine rischia il collasso. Funziona sia nelle situazioni di overdose visiva (talent show, montaggi frenetici, reality) sia in quelle di rarefazione sensoriale (assurdo non-sense, documentari e reportage naturalistici).
La terza tesi — la più sperimentale — è che la voce fuori campo sia l’embrione di un nuovo tipo di spettatore: lo spettatore a due livelli. Uno che guarda e, contemporaneamente, ascolta un commento che gli insegna a guardare. La voice-over, in questa prospettiva, abitua il pubblico a non fermarsi all’immagine, a percepire ogni sequenza come un dispositivo, ogni narrazione come un ingranaggio. È un addestramento silenzioso ed è per questo che la voce fuori campo è uno dei più efficaci anticorpi della contemporaneità ipermediata: crea spettatori meno docili, più mobili, più sospettosi. Paradossalmente, più liberi. E così la voce che non si vede diventa la più visibile di tutte: quella che rivela i fili, quella che sussurra che dietro ogni immagine c’è sempre un gesto, una scelta, un’intenzione. Ed è proprio in questa torsione — invisibile ma decisiva — che la televisione mostra la sua natura più autentica: non un semplice teatro di figure, ma un dialogo continuo fra mondo e sguardo, fra scena e coscienza, fra ciò che appare e ciò che, finalmente, qualcuno ha il coraggio di dire.

Nieves González
Arte e benzina: Allan ‘gut’ Terk
Allan “Gut” Terk è una di quelle figure che sembrano esistere per dimostrare che la storia della controcultura non è mai stata una linea retta, ma piuttosto una vibrazione intermittente che scorre ai margini del visibile. La sua vita — se così si può chiamare quella somma di viaggi, esplosioni e apparizioni frammentarie che attraversano gli anni Sessanta e Settanta — si muove in quella zona ibrida in cui il biker e l’artista, il delinquente e il visionario, il meccanico e il mistico si confondono fino a diventare la stessa persona.

Allan “Gut” Terk
Terk veniva dalla California, come quasi tutti quelli che hanno contribuito a inventare quell’idea di libertà tanto cara ai giovani americani degli anni Sessanta. Cresce in un ambiente in cui l’odore di benzina e quello della marijuana non sono ancora in conflitto, e in cui il desiderio di decorare un serbatoio di un’Harley-Davidson con un motivo fiammeggiante vale quanto una documento d’identità. È un autodidatta, un uomo che dipinge con le mani sporche di olio e che guarda la realtà con l’occhio deformante di chi sa che il mondo non è mai solo quello che sembra. Il soprannome “Gut” gli arriva dal suo gruppo di motociclisti, probabilmente per quella qualità viscerale, quasi carnale, che metteva in tutto ciò che faceva — come se ogni pennellata fosse un colpo diretto allo stomaco.
Negli anni Cinquanta e nei primi Sessanta entra negli Hells Angels, ma la sua traiettoria devia presto verso un’altra costellazione di outsider: quella dei Merry Pranksters di Ken Kesey, gli psichedelici nomadi che attraversano l’America a bordo del bus Furthur, iniettando LSD nei tessuti sociali e visivi del Paese. Terk non è un artista nel senso convenzionale del termine; non espone, non firma, non produce opere destinate al museo. Lui dipinge autobus, serbatoi, muri. Cose che si muovono, che spariscono. L’arte, per lui, è un’estensione della strada: il colore è benzina, e la grafica un linguaggio per comunicare con chi non si fida delle parole.

I Merry Pranksters su loro bus “Furthur”
Quando lavora ai poster psichedelici per i concerti e le manifestazioni della San Francisco underground, la sua mano si riconosce immediatamente: le linee non cercano la bellezza, ma la tensione. Il suo tratto mescola la durezza metallica del mondo biker con i vortici lisergici del periodo. È un’estetica che sembra nascere da una collisione: il rombo del motore che incontra il trip acido, il teschio e la spirale, il bitume e il colore fluorescente. Un esempio emblematico di questa sintesi è il poster per il Death of Money March del 1966, un’azione dei Diggers in cui la critica al capitalismo assumeva la forma teatrale di un funerale pubblico per il denaro stesso.

Death of Money March, 1966
Ma il suo contributo più mitologico resta la pittura del bus Furthur, quella specie di reliquia itinerante dell’epopea Prankster. Lì Terk riversa il suo universo visivo: arabeschi organici, scritte fluide, colori acidi che si dilatano come visioni. È difficile dire dove finisse la mano di Terk e cominciasse quella di altri artisti del gruppo; l’arte psichedelica era un fenomeno collettivo, una forma di scrittura caotica e condivisa. Tuttavia, si può dire che Terk fosse il tramite tra due mondi: portava nel laboratorio mobile di Kesey l’estetica rude dei motori e la violenza espressiva dei graffiti da strada.
Negli anni successivi, Allan Terk continua a oscillare tra l’arte e la marginalità. Dipinge serbatoi, realizza decorazioni per furgoni, si muove in spazi che non lasciano traccia nei cataloghi o nei musei. È un artista invisibile, e forse è proprio questa invisibilità la sua forma di resistenza. In un’epoca in cui la controcultura cominciava a essere assorbita e normalizzata, Terk rimane fedele alla sua dimensione sotterranea, quella dei freaks, dei drifters, dei sopravvissuti alle utopie.

Grafica dell’album “Vincebus Eruptum” dei Blue Cheer, 1968

Poster di Allan “Gut” Terk, 1968

Poster di Allan “Gut” Terk, 1968
Oggi, quando si prova a ricostruire la genealogia della poster art psichedelica, il suo nome non compare accanto a quelli di Wes Wilson o Victor Moscoso. Eppure, senza di lui, l’immaginario visivo della San Francisco di quegli anni sarebbe incompleto. La sua estetica è la controparte ruvida e carnale della psichedelia canonica: meno raffinata, più pericolosa. Se gli altri costruivano mondi di pura visione, Terk costruiva mondi che odoravano di benzina e paura, di asfalto bollente e allucinazione. La sua eredità è quella di un ponte tra universi apparentemente inconciliabili: i biker e i freak, i fuorilegge e i visionari. E in questo senso Allan “Gut” Terk non è soltanto un artista, ma un simbolo di quella breve stagione in cui l’arte e la vita si confondevano fino a essere la stessa cosa. Non ci sono grandi mostre retrospettive dedicate a lui, e forse non ci saranno mai. Ma basta guardare una vecchia fotografia del bus Furthur, o un manifesto ingiallito dei Diggers, per riconoscere la sua firma invisibile: un linguaggio fatto di benzina, colore e disobbedienza.

Allan ‘gut’ Terk (al centro), con Ken Kesey e Rock Scully

Poster di Allan “Gut” Terk, 1968

Poster di Allan “Gut” Terk, 1968

Poster di Allan “Gut” Terk, 1968
Burroughs e l’archetipo underground
Era fatale, quasi un destino scritto nelle stelle nere della dissoluzione e della lucidità estrema, che William Burroughs si innalzasse a figura totemica, a vero e proprio archetipo dell’intera storia dell’underground. Non si tratta di una mera etichetta biografica o di una compiacente affiliazione alla Beat Generation, di cui pure fu, per dirla con un lessico familiare, un inquietante padre spirituale. La sua influenza, la sua irradiazione, poggia su pilastri che sono insieme teorici e di una praticità devastante, un’alchimia che ha plasmato un modo d’essere e di creare alternativo, o meglio, contro il sistema.

Sul piano teorico, Burroughs ha operato una vera e propria demolizione del linguaggio come strumento di controllo e di conformismo. Il suo lavoro non è stato solo racconto di mondi marginali, ma l’applicazione chirurgica di una filosofia: il linguaggio, la word, è un virus che inocula nella mente il potere, il bisogno, la sottomissione. Egli non si è limitato a denunciarlo; ha inventato i meccanismi per smantellarlo dall’interno. La tecnica del cut-up, sviluppata con Brion Gysin, non è un capriccio stilistico, ma un atto di sabotaggio ontologico. Tagliare e ricombinare frammenti di testo, di giornali, di discorsi, significava distruggere la linearità narrativa e, con essa, l’autorità della narrazione ufficiale che legittima il potere costituito. Questa tecnica, in fondo, è la traduzione letteraria del principio di anarchia estetica che anima l’underground: la verità non è data, ma va scissa e ricostruita in una molteplicità di prospettive, spesso allucinate e disturbanti, come in un caleidoscopio di verità proibite.
La praticità di tale eredità, poi, si manifesta nell’incarnazione stessa di una vita condotta ai margini e in aperta sfida alla morale borghese. Burroughs non ha solo scritto dell’underground, ne è stato il geografo e l’abitante più radicale. La sua esplorazione della tossicodipendenza in opere come Junk e Pasto nudo non ha avuto il tono del reportage moralistico, ma la spietata oggettività di uno scienziato che analizza il meccanismo del bisogno come metafora di ogni forma di controllo sociale. Questo sguardo, crudo e non giudicante sulle zone d’ombra dell’esistenza – dalla droga all’omosessualità, dalla violenza alla perversione – ha offerto all’underground la sua epica priva di filtri, la sua contro-mitologia necessaria per resistere all’ipocrisia del mainstream. Il suo nomadismo esistenziale, da New York a Tangeri, passando per l’America Latina, lo ha reso un uomo senza fissa dimora morale, un’interzona vivente, concetto che definisce l’habitat prediletto di ogni cultura che si oppone al centro.

L’influenza del suo metodo, oltre il puro campo letterario, si è diffusa per contagio, come un virus creativo di cui Burroughs parlava, contaminando la musica rock – da David Bowie a Kurt Cobain, per citare solo due icone – e le arti visive, fornendo la grammatica per una ribellione creativa che usa il frammento, il collage, la disarticolazione, per esprimere il dissenso. Per l’underground, Burroughs è l’uomo che ha fornito sia l’arsenale teorico per decostruire la realtà percepita, sia l’esempio di una vita vissuta come opera d’arte e come atto permanente di rivolta contro il Moloch del conformismo. È in questo cortocircuito tra la sperimentazione stilistica più estrema e l’immersione senza rete nel fango della realtà negata che si cristallizza il suo ruolo di faro irrinunciabile per chiunque cerchi una via d’uscita dal labirinto del controllo.

L’anguria e l’algoritmo
Nell’epoca in cui l’immagine sembra avere preso il posto dell’argomentazione, alcune forme di comunicazione tornano a essere gesti minimi e quasi infantili: un frutto tagliato, un commento ripetuto tra milioni di altri, un’icona cambiata sul proprio profilo, un meme. Eppure, proprio in questi elementi apparentemente marginali si manifesta talvolta la strategia più consapevole e precisa di chi desidera aggirare l’ordine stabilito degli algoritmi, le loro preferenze, le loro punizioni. La controcultura digitale non nasce nel gesto di protesta plateale, ma nel dettaglio elusivo che ne scivola ai margini, creando costellazioni di senso difficili da neutralizzare.

Juno Calypso
L’immagine dell’anguria come simbolo di sostegno alla causa palestinese si colloca esattamente in questo punto d’incontro tra visibile e invisibile. La bandiera palestinese, proibita o resa sospetta in alcuni contesti, viene rievocata senza essere tecnicamente presente. Il rosso della polpa, il bianco delle venature, il verde della buccia riproducono, quasi per sineddoche naturale, la stessa armonia cromatica. Su Instagram, dove il sistema di moderazione opera secondo riconoscimenti automatici di parole e forme esplicite, una semplice fetta di frutto diventa messaggio politico, nonostante la sua apparente neutralità. È un gesto che ricorda certe forme di clandestinità iconografica del Novecento, quando una figura, un colore, un’iniziale potevano servire come segnale interno a chi sapeva riconoscere.
Allo stesso modo, quando migliaia di utenti hanno deciso di commentare la situazione di Gaza sotto un video virale di Beyoncé, si è trattato di un’azione collettiva pensata per sfruttare un differente punto cieco degli algoritmi. Il flusso dell’attenzione digitale non è uniforme, scorre verso ciò che già sta attirando sguardi. Il discorso politico, invece di nascere in uno spazio dedicato e dunque marginalizzato o filtrato, si innesta dentro un contenuto di massa, quasi come un innesto botanico. Il contenuto originario continua a vivere, ma vi cresce dentro un significato estraneo, un surplus di senso che lo trasforma. È in questa sovrapposizione, in questa scelta non di creare un luogo alternativo, ma di occupare uno spazio già riconosciuto, che si osserva la capacità della controcultura di muoversi secondo logiche indirette, laterali, elusive.

Juno Calypso
Questi fenomeni non sono isolati. Nel 2020, durante le proteste negli Stati Uniti, le comunità di fan del pop coreano invasero l’app della polizia di Dallas con migliaia di video musicali e gif di idoli, impedendo alle autorità di utilizzare lo strumento per monitorare i manifestanti. Qui la strategia non era simbolica, ma funzionale: rendere un sistema inefficiente sommergendolo di materiale irrilevante. Si trattava ancora una volta di muoversi non frontalmente, ma per saturazione, come l’acqua che entra in un ingranaggio e ne blocca la rotazione senza mai assumere la forma dell’attacco diretto.
In Cina, durante la censura del movimento MeToo, molte attiviste adottarono la figura del coniglio di riso, pronunciato “mi-tu”, riproducendo il suono delle due parole inglesi bandite. Anche in questo caso l’immagine svolgeva la funzione di mantello. Ciò che non si poteva dire poteva ancora essere indicato. È un fenomeno antico quanto la storia del linguaggio: il simbolo come passaggio segreto, come tunnel scavato sotto la superficie del discorso pubblico.

Juno Calypso
Questi esempi, pur diversi tra loro, condividono una logica comune. Gli algoritmi delle piattaforme non operano sulla profondità del significato, ma sulle superfici tracciabili. L’underground contemporaneo non è tanto un luogo quanto una tecnica. Non vive nella clandestinità per scelta romantica, ma perché il campo di battaglia è la visibilità stessa. Se la censura tradizionale agiva per sottrazione, quella algoritmica agisce per filtrazione. Ciò obbliga a non sottrarsi, ma a scivolare. Le controculture di oggi non sono interessate a costruire media alternativi come avveniva negli anni Sessanta e Settanta con le riviste autonome o le radio libere. Mirano piuttosto a piegare il mezzo dominante, insinuandosi nei suoi interstizi, forzandone le logiche dall’interno.
Stiamo assistendo a una mutazione nella storia della comunicazione controculturale: non più la costruzione di un territorio separato, ma la torsione dell’infrastruttura condivisa. Se in passato la distanza dallo sguardo del potere era garantita dalla marginalità, oggi il potere coincide con la capacità di distribuire l’attenzione. Chi vuole resistere deve imparare a camminare sul margine stesso dell’algoritmo, talvolta sfiorandone la soglia, talvolta trasformandone l’inerzia, talvolta sfruttandone la cecità.

Juno Calypso
Ecco perché una fetta d’anguria non è solo un frutto. Ecco perché un commento sotto un video pop non è soltanto un’intrusione. Essi sono la testimonianza di un nuovo tipo di gesto politico: leggero, trasversale, quasi impercettibile, ma capace di trasformare ciò che sembra impermeabile. La controcultura oggi non parla più con voce distinta: parla come eco dentro le voci più forti. Non cerca di gridare più forte, perché sa che nessuno la ascolterebbe. Cerca, piuttosto, di cambiare la direzione in cui il suono si propaga.


Juno Calypso
Valentine de Saint-Point: una figura di avanguardia nell’underground artistico e culturale
All’interno della vasta e complessa storia dell’underground, inteso come insieme di movimenti culturali, artistici e sociali che si sono sviluppati ai margini o in opposizione alle mainstream dominanti, si distingue la figura rivoluzionaria di Valentine de Saint-Point (1875-1953). Poetessa, danzatrice, scrittrice e visionaria, la sua vita e la sua opera rappresentano un prototipo di anticonformismo radicale e sperimentazione estetica che ha anticipato molte delle istanze e delle poetiche dell’underground moderno.
La vita: un percorso libertario e controcorrente
La vita di Valentine de Saint-Point si configura come un percorso profondamente libertario e controcorrente, una costante sfida agli schemi sociali, culturali e morali del suo tempo.
Nata a Lione nel 1875 da una famiglia borghese, perse il padre da piccola e crebbe con la madre e la nonna in un contesto provinciale, considerato asfittico per una personalità così irrequieta e ambiziosa.
A soli 18 anni sposò un professore di lettere più grande di quattordici anni, non per amore ma come strategia pragmatica: il matrimonio diventava allora una via per guadagnare l’indipendenza economica e fuggire da un ambiente soffocante. Tuttavia, il marito morì dopo sei anni e Valentine sposò un altro professore, ma nel 1904 ottenne il divorzio a proprie spese per riacquistare piena libertà, assumendosi la colpa per preservare la reputazione dell’ex coniuge. Dopo ciò decise di non sposarsi più.
Da allora visse con estrema libertà affettiva e sessuale, segnando la sua esistenza con relazioni intense ma non convenzionali, fra cui un legame duraturo con Ricciotto Canudo, poeta e critico d’arte, colui che introdusse la settima arte, il cinema. Valentine prendeva parte a circoli intellettuali aperti e artistici della Parigi dei primi del Novecento, partecipando appieno agli ambienti dell’avanguardia, ma mantenendo una posizione autonoma e irriverente.
Il suo anticonformismo si espresse anche nella produzione letteraria e poetica, con romanzi e opere teatrali che esploravano senza tabù il desiderio, l’amore e la psicologia femminile, spesso considerati scandalosi e provocatori per l’epoca. Inoltre, Valentine fu modella di grandi artisti come Auguste Rodin e Alphonse Mucha, e lei stessa artista poliedrica: danzatrice, pittrice, scrittrice, e visionaria, che portò avanti una intensa sperimentazione artistica.
La sua adesione al Futurismo fu inizialmente stimolata dal contatto con Filippo Tommaso Marinetti, ma si distaccò presto dal movimento, in contrasto con la misoginia e la rigidità di certi aspetti del futurismo maschile. Valentine si fece portavoce di una rivoluzione che comprendeva la liberazione della donna non secondo i canoni femministi dell’epoca, ma come “superdonna” che incarnava forza, aggressività e sessualità libera, incarnando la lussuria come manifestazione vitale e artistica.
Nel corso della vita si spostò anche verso una ricerca spirituale e mistica, specialmente negli ultimi anni vissuti in Egitto, avvicinandosi al sufismo e praticando discipline come l’agopuntura, ma sempre restando fedele al proprio spirito indipendente e fuori dagli schemi.

Il ruolo e il contesto storico-culturale
Il ruolo di Valentine de Saint-Point e il contesto storico-culturale in cui si mosse sono fondamentali per capire la portata e il significato della sua opera e del suo pensiero. Nel fervore culturale di Parigi ai primi del Novecento, un periodo segnato dalla Belle Époque, convivevano sia un’intensa vivacità artistica sia una rigida struttura patriarcale e borghese che stabiliva precise limitazioni per la donna e per l’espressione artistica non convenzionale.
Valentine si distinse all’interno della scena intellettuale come figura autenticamente libera e anticonformista, opponendosi sia alla misoginia esplicita del futurismo maschile sia ai modelli tradizionali della femminilità passiva e sottomessa. La sua opera e i suoi manifesti – in particolare il Manifesto della donna futurista e il Manifesto futurista della lussuria – rappresentano un’attacco frontale agli stereotipi dell’epoca: Valentine proiettava un’immagine di donna forte, indipendente, superdonna, capace di combinare caratteristiche maschili e femminili, lontana dalle categorie fisse e dai ruoli convenzionali.
Valentine tratteggiò un ideale di donna guerriera e androgina, ispirandosi a figure mitiche e storiche come le Amazzoni, Giovanna d’Arco, Cleopatra e altre, che incarnavano la potenza, l’indipendenza e la capacità di agire nel mondo con forza e consapevolezza. Il suo pensiero, influenzato dalla filosofia di Nietzsche e dalla psicologia di autori come Otto Weininger, contestava il determinismo biologico e la fissità delle identità di genere, vedendo la bisessualità e l’androgina come chiavi di rottura e liberazione dai codici patriarcali.
Nel teatro e nella scrittura Valentine promosse la costruzione di nuovi modelli femminili, auspicando l’emergere di un “Teatro della Donna” che rompesse con le rappresentazioni borghesi e stereotipate e che fosse capace di esprimere la complessità, l’autonomia e la creatività della donna contemporanea. Questa battaglia contro un teatro maschile e conformista, che ancora dipingeva la donna come oggetto o come figura sacrificata, fu parte integrante del suo impegno artistico e intellettuale.
Contestualmente, Parigi rappresentava un terreno fertile per queste contestazioni e sperimentazioni, poiché era un centro nevralgico di avanguardie, ma anche uno spazio di forti contraddizioni sociali: da un lato la modernità e la voglia di cambiamento, dall’altro la persistenza di valori patriarcali rigidi e sistemi culturali conservatori. Valentine, mentre si inseriva nel movimento futurista, ne criticò le misoginie e contribuì a introdurre temi nuovi come la sessualità libera vista come forza vitale.

L’estetica: dalla Métachorie all’arte totale
L’estetica di Valentine de Saint-Point si fonda su un’idea pionieristica di arte totale, incarnata nella sua invenzione della Métachorie, una forma originale e innovativa di danza che rompeva con la tradizione e anticipava le esperienze performative contemporanee. Il termine Métachorie, derivato dal greco e significante al di là del coro, indica infatti un superamento della danza classica tradizionale (corale), verso una disciplina che unisce corpo, poesia, musica e architettura in un’unica esperienza artistica integrata.
La Métachorie è una danza concettuale e astratta: Valentine voleva esprimere con il movimento del corpo non la narrazione sentimentale o l’esteriorizzazione di emozioni, ma il pensiero puro, sintetizzato in figure geometriche e linee rigorose. Il corpo diventa così strumento di una domanda intellettuale e spirituale, e il danzatore un mediatore fra un’esperienza individuale e una collettiva, fondendo l’arte immobile e quella mobile.
Per realizzare questa forma d’arte totale, Valentine si avvalse di velature sul volto dei danzatori che ne attenuavano l’espressività facciale, preferendo concentrare l’attenzione sul gesto e sulla forma, per garantire una coerenza stilistica e un’armonizzazione del movimento con la struttura poetica e musicale. La Métachorie trovò la sua prima rappresentazione pubblica nel 1913 al Théâtre des Champs-Élysées di Parigi e fu poi portata in tournée in Europa e negli Stati Uniti, suscitando sia ammirazione per la sua originalità sia critiche feroci da parte di esponenti tradizionalisti del futurismo, tra cui Marinetti, che la definì fredda e priva di ardore sessuale.
Questa coreografia spaziale esprimeva una concezione di arte che va oltre il singolo medium: era sintesi di poesia (poesie mimate e recitate), danza e architettura (con il movimento che seguiva una sorta di geometria ritmica), anticipando le future ricerche performative che uniscono diverse discipline artistiche. La Métachorie rappresenta così un manifesto estetico che rifletteva l’impegno di Valentine per la fusione tra intelletto e istinto, corpo e spirito, razionalità e ispirazione.
Oltre alla danza, l’estetica di Valentine de Saint-Point si manifestò chiaramente nei suoi scritti e manifesti che promuovevano la lussuria come forza creativa ed erotica, espressione di potenza vitale e ribellione contro i modelli borghesi. Il corpo e il desiderio non erano dunque solo materiali da rappresentare ma parte attiva di un’esperienza estetica totale e politica.

L’anticonformismo tra arte e vita
L’anticonformismo di Valentine de Saint-Point si manifesta come un elemento fondamentale e pervasivo sia nella sua arte sia nella sua vita personale, rendendola un’archetipo di artista underground ante litteram che ha sfidato e sovvertito le norme sociali, culturali e artistiche dominanti del suo tempo.
Valentine rifiutò categoricamente i modelli tradizionali di donna trasmessi dalla cultura borghese, quelli della moglie fedele, madre sacrificata e figura subordinata all’uomo. La sua critica mirava a un teatro e a una cultura che perpetuavano rappresentazioni femminili stereotipate, deboli e passive, che erano lontane dalla realtà di una donna autonoma, forte, complessa. Nel suo celebre Manifesto della donna futurista esprimeva la necessità di costruire nuove figure femminili, che unissero elementi di mascolinità e femminilità, andando oltre ogni determinismo biologico.
Il suo anticonformismo si tradusse anche in uno stile di vita dirompente: Valentine condusse un’esistenza completamente dedicata all’arte, che considerava un’estensione di sé stessa e della propria libertà. Il suo corpo diventò veicolo di espressione artistica e politica, esemplificato dalla sua teoria della lussuria come energia vitale e creatrice, che sfidava le ipocrisie morali del suo tempo. Fu eccentrica, provocante, libera nelle relazioni affettive e sessuali, una superdonna in piena sintonia con le pulsioni futuriste di ricerca di modernità e rottura.
La sua arte, dalla poesia alla danza, supera la semplice rappresentazione per diventare atto performativo antitetico ai canoni borghesi: arte come trasformazione radicale della realtà, capace di liberare spirito e corpo. Valentine non solo elaborava nuove forme estetiche, ma auspicava un ruolo autonomo e innovativo della donna artista, che con la sua creazione ridefinisse se stessa e il mondo.
Il suo impegno e la sua stessa vita riflettono una coerenza rara, quella di un’artista che non si limita a espressioni formali rivoluzionarie, ma è lei stessa rivoluzionaria: vive come crea, sfidando convenzioni e aspettative con determinazione. Questa integrazione tra arte e vita, corpo e spirito, autonomia e performance, colloca Valentine tra le figure di avanguardia più radicali, anticipando molte delle poetiche e degli stili di vita underground del XX secolo.
In conclusione, Valentine de Saint-Point rappresenta un nodo cruciale nella storia dell’underground perché incarna perfettamente la sintesi tra vita e arte anticonformista, lotta per la libertà espressiva e corpo come luogo di esplorazione e trasformazione. La sua eredità è quella di una donna che, attraversando e superando le avanguardie ufficiali, ha saputo tracciare un percorso personale e universale che preludia molte delle poetiche e dei comportamenti che segneranno l’arte e la cultura underground del XX e XXI secolo.

Velocità, sesso e trasgressione: la vita leggendaria di Jungle Pam
Pamela Hardy, la leggendaria “Jungle Pam”, visse la sua vita con un mix esplosivo di trasgressione, libertà sessuale e ribellione che sfidava ogni regola del tempo, incarnando perfettamente lo spirito degli anni ’70.
Nata nel 1954 a West Chester, Pennsylvania, Pamela avrebbe potuto seguire un percorso accademico convenzionale, ma la sua vita cambiò radicalmente quando incontrò Jim Liberman, “Jungle Jim,” sul circuito di drag racing, un uomo noto per il suo carisma e spirito ribelle.
Jim rimase immediatamente colpito da Pamela, che camminava per le strade cittadine; i suoi due mondi si fusero in una passione e in un ventennio di eccessi. Pamela divenne non solo la sua navigatrice e assistente tecnica nelle competizioni, ma una vera e propria icona di sensualità che aggiunse una nuova dimensione alla spettacolarità già esistente nel drag racing. Il suo abbigliamento era scandaloso per l’epoca: top succinti senza reggiseno, pantaloncini da due centimetri e stivali go-go, scatenando un vortice di ammirazione e provocazione. Pamela dichiarava di non indossare il reggiseno per semplice comodità, ma era chiaro che la sua fisicità abbondante e sensualissima diventava un’arma di seduzione e pubblicità. Era normale vedere Pamela esibirsi con movenze da pin-up, generando tensioni e desideri fra gli spettatori, un modo diretto e spudorato di esercitare un potere femminile forte e consapevole in un ambiente dominato dagli uomini.


Le gare erano una miscela di velocità, spettacolo e puro erotismo. Pamela non si limitava a essere una bella presenza, ma gestiva con sicurezza compiti tecnici come il controllo dell’auto e il piazzamento sulla linea di partenza, ma la sua immagine era parte integrante dello show. Abituata a vivere senza freni, la sua vita privata si nutriva di serate di festa cariche di alcool, sostanze e sesso sfrenato. Numerosi sono gli aneddoti che raccontano di notti brucianti passate nei motorhome, con frequenti incontri appassionati non solo con Jim ma anche con altri personaggi del mondo del racing, creando un cocktail di amore libero e trasgressione molto in linea con gli ideali hippy e libertini dell’epoca.
Pamela e Jim rappresentarono nel loro piccolo un microcosmo di quella esplosione culturale: le loro avventure andavano ben oltre le piste, diventando simboli di sfida contro la morale tradizionale. Pamela era famosa per le sue provocazioni pubbliche, che arrivavano fino a strip tease improvvisati o apparizioni quasi nude nei paddock, andando a scuotere le fondamenta di un mondo settoriale e conservatore. Era una vera e propria regina dell’underground automobilistico, capace di catalizzare l’attenzione con la sua carica erotica ma anche con la sua determinazione a non farsi mettere da parte.


La relazione con Jim, seppur intensa e appassionata, non fu priva di momenti difficili. La fedeltà di Jim vacillava spesso, aggiungendo tensioni a un rapporto già denso di emozioni forti e vite vissute al limite. Entrambi però condividevano la voglia di vivere senza limiti e senza regole imposte, di sfidare il mondo con la pulsione incontrollata del desiderio e della velocità. La loro vita insieme fu uno spettacolo di amore, sesso e ribellione, sospeso tra adrenalina e inquietudine, fatto di passioni incandescenti e rotture dolorose.
Il tragico epilogo arrivò nel 1977, quando Jim morì in un incidente stradale a soli 31 anni, spezzando un sodalizio destinato a diventare leggenda. Pamela, devastata, si ritirò dalle scene del drag racing, ma la sua storia rimane scolpita nell’immaginario come una testimonianza autentica di quegli anni di rivoluzione culturale, eccessi veri e sessualità sfrenata.
Non una semplice donna-oggetto, ma un simbolo di emancipazione femminile consumata con audacia e orgoglio in un ambiente maschile e competitivo, Jungle Pam fu la quintessenza di un decennio dove sesso, velocità e trasgressione erano le parole d’ordine.
Pamela Hardy non fu solo un volto sexy o una semplice mascotte delle corse. La sua vita era un caleidoscopio di esperienze vere, intensità sessuale libera e ribellione contro ogni norma, un’icona underground che ha incarnato con carisma e sfacciataggine il lato più provocatorio e hot della cultura anni ’70 americana, dimostrando che la passione e la libertà si possono vivere senza compromessi né paura.

Addio al Vernacoliere: L’Ultimo Sberleffo di un’Italia Impertinente
Una nota di mestizia sottile e acuminata si insinua nel panorama culturale italiano: la notizia odierna della sospensione delle pubblicazioni de Il Vernacoliere non è solo un fatto editoriale, ma il malinconico suggello a un’epoca di satira furente e libertà intellettuale senza compromessi.
Fondato a Livorno nel 1961 da Mario Cardinali, inizialmente come settimanale di controinformazione intitolato Livorno Cronaca, il mensile ha mutato pelle nel 1982 per diventare il titanico monumento di “satira, umorismo e mancanza di rispetto in vernacolo livornese e in italiano” che oggi, dopo oltre sessant’anni, depone le armi di fronte a una stanchezza fisica del suo quasi novantenne direttore e alle implacabili dinamiche della crisi dell’editoria cartacea.

Mario Cardinali

Il Vernacoliere non fu mai una rivista, quanto piuttosto una trincea. Un foglio sferzante, forgiato nella lingua ruvida e verace della costa toscana, capace di travalicare i confini regionali per imporsi come uno dei più vigorosi esempi di stampa underground nel dopoguerra italiano. La sua unicità risiede nella totale assenza di filtri, in una dissacrazione sistematica del “potere” in ogni sua forma – politico, ecclesiastico, militare, economico – eseguita con una chirurgica e volgare onestà intellettuale.
I suoi slogan, spesso ridotti a titoli di locandina di irripetibile efficacia, possedevano la forza primigenia del linguaggio popolare e l’acume critico del pamphlet. La loro capacità di farsi subito “meme”, ancor prima che il termine entrasse nel lessico comune, risiede nella diretta, tellurica rottura di ogni canone dell’odiato politically correct.
Cardinali, una sorta di filosofo livornese prestato alla tipografia, laureato in Scienze Politiche a Pisa, ha sempre difeso la sua creatura con il coraggio tipico di chi sa che la satira, quella vera, è sempre scomoda e mai neutrale.
La rivista ha nutrito generazioni di lettori con rubriche irriverenti e personaggi indimenticabili. Se il direttore stesso ha spesso personificato lo spirito indomito del giornale – si pensi alla sua celebre risposta a Giovanni Toti, che definiva gli over 70 “improduttivi”, con un invito a “trombare di più” – le sue pagine sono state il laboratorio di talenti come Federico Maria Sardelli e una pletora di vignettisti e autori che hanno saputo tradurre in fumetto e testo la critica sociale più feroce.
Il fumetto, in particolare, è stato il veicolo privilegiato di questa rivolta editoriale, con figure come Gualtiero il Puttaniero di Mario D’Imporzano (Dimpo) o il leggendario Troio, che hanno dato corpo a un’umanità sboccata e refrattaria all’ipocrisia borghese.

Gualtiero il Puttaniero

Il Troio
Episodi storici ne hanno scandito la marcia, a testimonianza di una libertà pagata a caro prezzo ma mai barattata: dalle querele per oscenità subite, come quella per l’uso della parola “topa” in una locandina del lontano 1983 – con Cardinali assolto e che difese il termine con superba ironia definendolo una “categoria kantiana” – a sfide più audaci, come il titolo “Madonna Trogolona” riferito alla popstar Madonna, che portò a un’accusa di offesa alla Madre di Dio, anche questa conclusasi con l’assoluzione, ribadendo la sacralità della satira.
In ogni aula di tribunale, Il Vernacoliere non difendeva solo la propria sorte, ma la possibilità stessa, in Italia, di ridere del sacro e del profano con la stessa indifferenza per le gerarchie.
Oggi, l’annuncio della sospensione, mascherato dalla consueta ironia del “nessuno è eterno. Neanche Mario Cardinali”, suona come una resa, non alla critica o al potere, ma alla fatica e ai mutamenti di un mercato che premia l’effimero ma soprattutto si omologa piegandosi al pensiero dominante.
Il Vernacoliere lascia un vuoto incolmabile: è il crepuscolo di una rivista che è stata, a pieno titolo, coscienza sporca e intelletto critico, specchio deformante di un’Italia che, forse, ha smarrito la voglia e la capacità di ridere così aspramente di sé e dei suoi padroni. Un’eredità pesante, quella di un’editoria prevalentemente fumettistica, cruda e geniale, che resta un faro di coraggio per chiunque creda che la vera libertà di stampa risieda nell’assoluta e sfrontata “mancanza di rispetto”.



Un laboratorio di resistenza culturale: la storia di +972 Magazine
Nell’era liquida del mondo digitale, dove le voci si perdono nel rumore di fondo e la verità si scontra con la propaganda, +972 Magazine si staglia come un’anomalia acuminata, una sorta di presidio di intelligenza critica e impegno civico nel contesto aspro e complesso del conflitto israelo-palestinese.
Fondata nell’arco di un’estate del 2010, questa rivista online si è ritagliata uno spazio non tanto per il suo successo di pubblico, quanto per l’audacia della sua scommessa:
raccontare la realtà dal basso, con uno sguardo che nega ogni netto spartiacque ideologico, ma che soprattutto si fa voce di una generazione che rifiuta i cliché e le narrazioni binarie.
L’atto fondativo di +972 è un gesto politico di resistenza culturale in un’area dove l’editoria tradizionale si è spesso piegata, o schierata, alle logiche di potere: quattro giornalisti israeliani – Lisa Goldman, Ami Kaufman, Dimi Reider, e Noam Sheizaf – si incontrano a Tel Aviv, inquieti per la rappresentazione distorta e parziale offerta dall’informazione mainstream internazionale sul conflitto. Il nome stesso della rivista, +972, è un potente simbolo di identità “complessa”, un prefisso telefonico che lega Israele e Palestina, svelando in un numero l’intreccio indissolubile delle vite, dei destini, e delle storie in terra contesa.
A differenza della stampa istituzionale israeliana o delle agenzie globali, +972 Magazine si configura fin dall’inizio come un laboratorio editoriale underground non perché sia un’organizzazione clandestina, ma perché si impone una visione mai ufficiale o corporativa.
Il progetto nasce da una rete orizzontale, quasi anarchica, in cui la gerarchia tradizionale lascia spazio a una collaborazione fluida, a una scrittura libera e partecipata che parte dal vissuto dei redattori e delle redattrici – israeliani, palestinesi, e anche membri della diaspora americana e canadese – loro stessi esposti nelle loro vite quotidiane al trauma, alla frustrazione e all’ingiustizia. Non ci sono censure interne, ma un ethos redazionale “unorthodox,” come ebbe a definirlo Sarah Wildman su The Nation. La rivista si dichiara come un “giornale fuori dal coro”, adottando un approccio che privilegia il dissenso, la narrazione dal basso e la denuncia delle ingiustizie, anche a costo di contraddire le narrative ufficiali o le aspettative dominanti. Questo modo di operare si traduce in un sistema privo di gerarchie rigide, dove i giornalisti sono liberi di scrivere e dissentire, spesso rischiando conseguenze sociali e politici. La loro posizione è quindi anche etica e politica: una scelta consapevole di rompere con le logiche convenzionali dell’informazione e di affrontare le difficoltà di essere voci di dissenso in un contesto travagliato e oppressivo.

La redazione di +972 magazine
I protagonisti di +972 non sono solo giornalisti; sono attivisti, testimoni, e in qualche misura vittime di ciò che raccontano. Il loro lavoro descrive l’occupazione militare israeliana come un nodo centralissimo nelle lotte per i diritti umani, ma va oltre, immergendosi nelle pieghe delle proteste di base, delle iniziative culturali, e delle strategie di resistenza nonviolenta che attraversano entrambe le comunità. È proprio questa capacità di trasformare la cronaca in un racconto umano, intriso di contraddizioni, dubbi, e tensioni interne, a distinguere +972 da qualsiasi altra testata: qui la politica si fa narrazione partecipata, un’operazione che decostruisce, rovescia i cliché, e si batte per un’informazione che possa essere strumento di trasformazione, non di dissimulazione o, peggio ancora, vera e propria propaganda.
+972 Magazine, per esempio, non si è limitata a raccontare l’esperienza recente della Global Sumud Flottiglia come un evento significativo, ma ha preso una posizione netta e inequivocabile contro il blocco marittimo imposto da Israele sulla Striscia di Gaza, definendolo illegale e illegittimo secondo il diritto internazionale.
La rivista si è schierata apertamente a fianco degli attivisti internazionali che, a bordo di circa cinquanta imbarcazioni da tutto il mondo, hanno cercato di rompere quel blocco, ostacolati e infine intercettati dalla Marina israeliana in acque internazionali.
+972 ha denunciato la detenzione dei membri della flottiglia come un rapimento, un’azione repressiva che viola i diritti umani fondamentali e mira a soffocare la solidarietà internazionale. La copertura giornalistica si è distinta per un’accurata documentazione delle violenze e delle intimidazioni subite, per dare voce agli attivisti e per smascherare la narrazione israeliana ufficiale che dipingeva l’operazione come un successo degli apparati di sicurezza interni. In questo modo, +972 ha incarnato perfettamente la funzione dell’editoria underground contemporanea: un giornalismo militante, schierato, che rischia e si batte perché l’informazione non venga diretta dal potere, offrendo una lettura critica e plurale della realtà.
Le tematiche che la rivista affronta sono tanto geografiche quanto esistenziali: dalla lotta contro lo sfratto dei palestinesi nei quartieri di Gerusalemme, alla critica degli abusi compiuti da gruppi fondamentalisti israeliani, passando per le rappresentazioni culturali e artistiche – teatro, cinema, musica – come forme di resistenza sotterranea, “underwater” come evocano i loro articoli, che riaffiorano a testimoniare un’umanità limitrofa alla violenza istituzionale. Le battaglie culturali non si limitano a raccontare fatti, ma cercano di creare un terreno dialogico e di coesistenza, spesso in ambienti sociali spaccati da tensioni e animosità che sembrano irreparabili.
+972 si distingue inoltre per il suo impatto internazionale. Scrivendo principalmente in inglese, la rivista si pone come ponte tra il discorso locale e la comunità globale, offrendo una contro-narrazione ai mass media tradizionali che tendono a veicolare versioni semplificate o schierate del conflitto. Questa scelta linguistica è già di per sé un atto culturale radicale, poiché implica prendersi la responsabilità di raccontare un territorio di oppressione e conflitto a un pubblico che spesso vede da lontano e quindi rischia di fraintendere i contenuti.
In questo senso, +972 inserisce con forza la sua esperienza nella storia più ampia dell’editoria underground, che non è mera opposizione al sistema ma una costruzione di spazi espressivi indipendenti e alternativi, capaci di portare al pubblico storie “altre” e spesso censurate.

Gaza City, agosto 2025
La rivista segue una tradizione che va dai samizdat sovietici ai giornali clandestini di resistenza durante i regimi autoritari, passando per le pubblicazioni dei movimenti controculturali degli anni Sessanta fino agli odierni blog e media alternativi, ma aggiunge una peculiarità: quella di operare in un contesto geopolitico fortemente militarizzato e polarizzato, dove l’informazione stessa è campo di battaglia e la penna una possibile arma di dissenso.
Il loro giornalismo, infine, non è mai neutrale: è una scelta radicale di schieramento dalla parte degli oppressi, una testimonianza della complessità della convivenza forzata.
un invito costante a ripensare la convivenza stessa, a decostruire i nazionalismi, le colonizzazioni culturali, e le ingiustizie strutturali. Attraverso una scrittura che è al contempo politica e letteraria, +972 diventa così un “altro luogo” della resistenza editoriale, un presidio che parla di libertà, di verità e di umanità in una delle realtà più difficili del nostro tempo.
La scrittura che resiste
Armando Petrucci, quando studiava le grafie marginali, i graffiti incisi sulle pareti delle chiese medievali o le minute quotidiane scritte da mani inesperte, sapeva di confrontarsi con un fenomeno che andava oltre l’aspetto tecnico della scrittura. Per lui la scrittura era un atto sociale, un gesto che raccontava non solo chi sapeva leggere e scrivere, ma anche chi era escluso, chi restava muto e invisibile. In questo sguardo, che faceva della paleografia non una scienza polverosa ma una lente viva per interpretare i rapporti di potere, c’è un’anticipazione di quello che accade nei secoli più vicini a noi con la storia della stampa non ufficiale, con le pubblicazioni clandestine e con l’universo della stampa underground.

Hans Bellmer
Se la scrittura medievale aveva i suoi confini segnati dal monopolio del clero e dal privilegio delle cancellerie, la stampa ha rappresentato per secoli lo strumento più potente di diffusione del sapere, ma anche il più sorvegliato. Ogni regime, ogni potere consolidato, ha sempre cercato di controllarla. La bellezza della stampa underground nasce proprio da questa tensione: si scrive, si stampa, si diffonde nonostante le interdizioni, contro la censura, per dare voce a ciò che non trova spazio nei circuiti ufficiali. È la stessa dinamica che Petrucci vedeva nella scrittura dei margini: chi non possiede i canali dominanti inventa un proprio modo di incidere il segno, di lasciare una traccia.
La stampa clandestina, che sia quella politica durante i regimi autoritari o quella controculturale degli anni Sessanta e Settanta, ha la sua forza nel ribaltare le gerarchie della comunicazione. Non nasce per perfezione tipografica, non si fonda sull’autorità delle grandi case editrici, ma sul desiderio urgente di testimoniare. Si tratta di un’arte povera, talvolta improvvisata, che proprio per questo conserva una verità più schietta. È la materializzazione cartacea di un dissenso, e al tempo stesso è l’affermazione di un’identità collettiva.

Jiří Kolář
Guardare a un foglio ciclostilato degli anni Settanta, alle sue righe storte, all’inchiostro che sbava, è un po’ come leggere i graffiti su una pietra medievale: non conta tanto la forma, quanto il gesto che vi si condensa. È il segno di un’esigenza di comunicare, di un’urgenza che supera le barriere tecniche. Ed è qui che si capisce la bellezza della stampa underground: nella sua fragilità, nella sua provvisorietà, nell’essere destinata a circolare in poche mani e proprio per questo a costruire comunità.
L’eredità che possiamo trarre dall’approccio di Petrucci è allora questa: la scrittura, e per estensione la stampa, non è mai un fatto neutro. Ogni parola messa su carta, ogni carattere impresso, racconta un rapporto di forza, una scelta, un atto di resistenza o di adesione. La stampa underground diventa così la prosecuzione moderna di quella lunga storia di scritture marginali che attraversa i secoli, e che hanno sempre avuto la stessa funzione: dare voce a chi non ce l’ha, fissare nel segno l’ostinazione di esistere.
Ciò che commuove, e che affascina, non è soltanto il contenuto dei fogli sotterranei, ma il loro esistere stesso. Sapere che qualcuno, in un seminterrato o in una tipografia improvvisata, ha deciso di rischiare pur di scrivere, di stampare, di diffondere, restituisce al nostro presente un senso di dignità e di coraggio. È questo, forse, che rende la storia della stampa underground non solo importante, ma anche bella: ci mostra che la parola, quando è libera e ostinata, riesce sempre a trovare il modo di circolare, e che ogni foglio, anche il più fragile, può contenere il respiro di una rivoluzione.

Mira Schendel
Oltre la perfezione: il potere generativo dell’errore nella tesi di Ludovica Alpago
Ogni tanto, almeno quando mi è possibile, mi piace leggere alcune tesi di laurea, ed oggi ve ne presento una che mi ha particolarmente colpito. Si tratta del lavoro di Ludovica Alpago, che ringrazio molto per la disponibilità, laureatasi in Digital e Graphic Design presso IUSVE Venezia con una tesi dal titolo Il fascino degli errori: progettare un prodotto editoriale come omaggio agli incidenti creativi, relatrice la prof.ssa Anna Saccani.
Il lavoro si propone di indagare il significato dell’errore come una fonte cruciale di innovazione e creatività, contrapponendosi alla diffusa cultura della perfezione e del successo. Di questo lavoro mi piace sottolineare alcuni elementi specifici anche perché spesso li incontro nei miei studi sulla grafica e comunicazione underground. Ma andiamo per punti:
Centralità del Concetto di Errore
La tesi pone l’errore al centro della riflessione come risorsa culturale e progettuale, anziché come mero impedimento. L’autrice si muove in senso contrario rispetto alla visione dominante che stigmatizza l’errore, associandolo a fallimento e incompetenza, e ne propone una reinterpretazione come opportunità per apprendere, scoprire e trasformare, tanto nell’ambito artistico quanto in quello progettuale. Questo approccio interdisciplinare – recentemente letto anche nel libro Elogio dell’ignoranza e dell’errore di Gianrico Carofiglio – intreccia filosofia, pedagogia, estetica e scienze sociali per offrire una riflessione critica e articolata su quella che viene definita la “cultura dell’errore”.
Il lavoro sottolinea come l’errore sia un elemento inevitabile e fondamentale del processo di conoscenza e dell’innovazione in ogni disciplina, dalla scienza alla medicina, dall’educazione alla filosofia. Senza la possibilità di sbagliare, non esisterebbe nemmeno la ricerca della verità, e la scienza, ad esempio, avanza attraverso continui tentativi di smentita. La tesi evidenzia che gli errori, più di ogni altra cosa, “rendono gli uomini amabili”, umanizzandoli e costituendo un passaggio essenziale della nostra evoluzione. È proprio il riconoscere e accettare la nostra fallibilità che ci permette di migliorare e progredire.
Aspetti Creativi dell’Errore
La tesi esplora in profondità come gli “inciampi creativi” possano fungere da motore di innovazione, generando nuove estetiche, linguaggi e narrazioni. Nel campo artistico, in particolare, l’imprevisto, l’incompiuto e persino i fallimenti tecnici hanno spesso rivestito un ruolo cruciale nello sviluppo di movimenti e nella creazione di opere innovative. L’autrice fornisce numerosi esempi storici in cui l’errore si è trasformato in un catalizzatore creativo:
- L’arte del passato: Dalle crepe sulla superficie del Quadrato Nero di Kazimir Malevič, che sono diventate parte fondamentale dell’opera, alla performance Love is in the Bin di Banksy, dove l’autodistruzione parziale ha reso l’opera ancora più iconica.
- Culture non occidentali: Il concetto giapponese di Wabi-Sabi, che esalta l’imperfezione come segno di autenticità e bellezza, e l’arte del Kintsugi, che ripara ceramiche rotte con oro, mettendo in risalto le crepe e trasformandole in parte integrante della bellezza dell’oggetto.
- Movimenti artistici: Le tecniche pittoriche impressioniste, inizialmente criticate ma poi celebrate per la loro innovazione nella rappresentazione della luce e del colore attraverso pennellate evidenti. Le avanguardie come il Dadaismo e il Surrealismo, che hanno trasformato l’errore, l’assurdo e l’accidentale in strumenti di espressione consapevole.
- Design e vita quotidiana: Il lavoro di Kent Rogowski che riassembla pezzi di puzzle commerciali in modi inaspettati, creando immagini frammentate e distorte. Le collezioni di oggetti con errori di fabbricazione di Heike Bolling, che evidenziano l’interazione tra produzione di massa e unicità.
- L’artista e l’errore: La tesi fa riferimento a figure come Vincent Van Gogh, la cui vita e arte sono viste come un elogio involontario ma appassionato dell’errore. Anche la teoria del flow di Mihaly Csikszentmihalyi suggerisce che la creatività emerge attraverso un costante scambio di tentativi ed errori.

Banksy, Love is in the Bin, 2018
Questi esempi dimostrano come l’errore, lontano dall’essere un mero difetto, possa essere un elemento generativo che spinge a riconsiderare i codici tradizionali e a dare vita a nuove visioni e linguaggi espressivi.
L’Errore nelle Controculture Underground: La Glitch Art
La tesi dedica una particolare attenzione alla Glitch Art, un movimento artistico che incarna perfettamente l’idea di controcultura che costruisce i propri linguaggi sull’errore e sul “non corretto”.
Nata tra la fine degli anni Novanta e l’inizio dei Duemila con l’espansione dell’era digitale, la Glitch Art si presenta come una delle espressioni più radicali della connessione tra tecnologia, errore e creatività.
Anche in questo caso, il concetto viene sviluppato attraverso alcuni punti:
- Ribaltamento dell’ideale di perfezione: La Glitch Art rovescia l’ideale tecnologico di efficienza e precisione, trasformando bug e malfunzionamenti in strumenti creativi ed estetici. Celebra il caos e l’imprevisto, rendendo il “glitch” non un ostacolo, ma un’occasione di stimolo creativo e una riflessione sull’estetica e l’identità della cultura digitale.
- Radici e evoluzione: Le sue radici affondano nei videogiochi e nella videoarte degli anni Settanta, dove errori grafici e anomalie tecniche cominciarono a rivelare un potenziale visivo. Già figure come Marcel Duchamp, con il suo Nudo che scende le scale, n. 2, avevano anticipato l’estetica del malfunzionamento, con effetti visivi paragonabili a quelli di una scheda grafica danneggiata.
- Critica culturale e politica: La Glitch Art è più di una mera sperimentazione estetica; è una forma di critica culturale che infrange l’illusione digitale, rivelando la struttura nascosta del codice e la fragilità dei sistemi informatici. Essa “rende visibile l’invisibile” e invita a riflettere sul rapporto tra uomo e tecnologia, tra controllo e caos, tra naturale e artificiale. Assume un valore politico e sociale, denunciando la fallibilità del sistema e decostruendo l’idea di perfezione associata al digitale.

Marcel Duchamp, Nude Descending a Staircase, No.2, 1912
L’autrice conclude il suo progetto con la realizzazione di una fanzine intitolata dis.connect, che è un omaggio tangibile a questa estetica dell’errore. La fanzine celebra l’imperfezione tramite un reportage visivo di “errori urbani” (manifesti strappati, graffiti sbiaditi, segnali deteriorati) reinterpretati in chiave glitch, utilizzando soluzioni grafiche sperimentali e materiali non convenzionali. Questo prodotto editoriale, pensato per la Generazione Z – un pubblico cresciuto tra l’analogico e il digitale e sensibile ai linguaggi alternativi – è un vero e proprio manifesto dello sbaglio, incoraggiando l’intervento manuale e la sperimentazione, e proponendosi come “atto di libertà” contro la ricerca di perfezione tecnica.
La struttura narrativa della fanzine stessa, con capitoli come INPUT, ERROR, CRASH e SILENCE, simula il ciclo di vita di un errore digitale, rendendo l’errore non solo un soggetto, ma la sua stessa forma espressiva.
Concludo sostenendo che la bella tesi di Ludovica Alpago offre una visione profonda e stimolante dell’errore, non come qualcosa da nascondere o evitare, ma come una potente forza creativa e un linguaggio espressivo autentico, particolarmente rilevante nel contesto delle controculture underground e della Glitch Art che hanno saputo orgogliosamente elevare il “non corretto” a principio estetico e critico.
Shindig! Anatomia di una rivista fuori luogo
Shindig! non è soltanto una rivista di musica: è una piccola impresa di recupero della memoria sonora e un caso esemplare di come la stampa underground possa crescere senza perdere la pelle artigiana che l’ha generata. Se pensi alla storia della controcultura stampata — dai fogli politicizzati degli anni Sessanta alle fanzine fotocopiate del punk — Shindig! si colloca come un ponte fra il culto collezionistico del vinile e la voglia contemporanea di narrare i contesti culturali più sotterranei con voce autorevole ma non accademica.
La testata nasce da un’operazione tipica del circuito DIY: un fanzine costruito da appassionati, fatto di conoscenza minuta, contatti con musicisti e collezionisti, e di una comunità che scambia cassette, dischi e segnalazioni. Questo atteggiamento resta il DNA della rivista anche quando la forma evolve verso un prodotto più curato e distribuito.
La storia prende forma all’inizio degli anni Novanta, in un’Inghilterra ancora percorsa da onde di revival garage e psichedelia. È il 1992 quando Jon “Mojo” Mills, allora ventenne, mette insieme un piccolo fanzine fotocopiato dal titolo Gravedigger. Stampato in poche decine di copie, con grafiche da ritaglio e testi densi di nomi oscuri e recensioni maniacali, il foglio è interamente dedicato al garage-punk più grezzo, ai gruppi che non trovavano spazio sulle riviste di settore tradizionali. Attorno a Mills si forma presto un nucleo di collaboratori destinato a diventare stabile: Andy Morten, musicista e grafico, che porterà alla rivista una sensibilità visiva più strutturata, e un network di scrittori, collezionisti e fotografi di scena che forniranno materiale unico.
Nel 1994 Gravedigger cambia pelle e nome: diventa Shindig! — un richiamo ironico e affettuoso all’omonimo show televisivo americano degli anni Sessanta, quasi a dichiarare apertamente la volontà di scavare nel patrimonio pop e psichedelico di quell’epoca.
Per oltre un decennio la rivista resta una produzione semi-artigianale, pubblicata con cadenza irregolare, ma sostenuta da un pubblico fedele di appassionati. Il salto arriva nel 2007, quando un accordo con la piccola casa editrice Volcano Publishing consente a Shindig! di trasformarsi in un magazine a colori, distribuito a livello nazionale e internazionale. È un passaggio delicato: la redazione mantiene il controllo editoriale, ma la periodicità cresce e la tiratura si amplia. Nel 2015 la relazione con Volcano si incrina: l’editore tenta di lanciare una nuova rivista, Kaleidoscope, incorporando il marchio Shindig! senza il consenso dei fondatori. Mills e Morten reagiscono pubblicamente difendendo il nome e l’identità della testata; il risultato è la transizione verso un nuovo editore, Silverback Publishing, che dal 2015 ne cura l’uscita. Da allora Shindig! è diventata mensile (dal 2017), senza perdere il gusto per le storie laterali, gli approfondimenti monografici e una grafica che ancora oggi porta tracce evidenti delle sue origini fanzinare.
Il protagonista più riconoscibile di questa storia è Jon “Mojo” Mills — la figura dell’editore che parte dal basso, conosce i dettagli ossessivi dei cataloghi discografici e costruisce attorno a sé una redazione di consulenti, storici non ufficiali e scrittori appassionati. Accanto a lui, la rete di collaboratori e co-editor che hanno mantenuto viva la voce della rivista ha trasformato una pratica da nicchia in un progetto editoriale stabile: una comunità che, pur professionalizzandosi, non rinuncia all’ethos da fanzine. Nel percorso editoriale si nota la classica transizione di molte esperienze underground: dall’autoproduzione a stampa sporadica a edizioni regolari e una distribuzione che attraversa negozi indipendenti, abbonamenti internazionali e piattaforme digitali; oggi Shindig! è pubblicato e venduto in formati che testimoniano questa maturazione.
Il contesto culturale che Shindig! rappresenta è duplice: da un lato c’è la nostalgia attiva per gli anni Sessanta e Settanta — non la nostalgia come esercizio estetico passivo, ma come ricerca critica di scene marginali, scarti e deep cuts; dall’altro c’è l’interesse per la genealogia delle sonorità underground, dai gruppi garage ai cantautori dimenticati fino ai revival psichedelici contemporanei. Questo doppio registro lo rende particolarmente adatto a un pubblico giovane che cerca autenticità narrativa — storie che spiegano perché una certa canzone suona come suona, chi l’ha prodotta, e quale contesto sociale o subculturale l’ha resa possibile. Shindig! si pone quindi tra il saggio popolare e il fanzine, parlando tanto ai collezionisti quanto ai neofiti curiosi.
Dal punto di vista grafico il percorso di Shindig! è, in piccolo, la storia stessa della grafica underground degli ultimi trent’anni: all’inizio troviamo l’ergonomia del fotocopiato — xerox, collage, titoli scritti a mano o con font imitanti le macchine da stampa amatoriali — eredità diretta delle fanzine punk e delle photocopy-zines che privilegiavano il contenuto e la velocità di circolazione rispetto alla lucentezza della carta. Man mano che la rivista guadagna mezzi, la veste si colora: le copertine diventano piena tinta, la fotografia d’archivio è riprodotta in qualità alta, ma la grafica conserva elementi del primitivo: impaginazioni che sembrano ancora ritagliate, giochi di sovrapposizione tra foto e titoli, e una masthead – il logo SHINDIG! – che spesso si presenta come un blocco compatto e immediato, tema visivo che richiama l’energia pop-art e la tipografia dei poster musicali degli anni Sessanta. È una scelta estetica non banale: si cura la qualità della stampa senza dissimulare il carattere artigianale dell’origine. Per farti un’immagine pratica, guarda le copertine recenti: grandi ritratti o composizioni centrali, titoli di copertina come bande che sovrastano l’immagine, e colori saturi che rimandano tanto alle edizioni patinate quanto ai poster psichedelici del passato.
Nel più vasto albero genealogico della grafica underground, Shindig! rimane un esempio di ibridazione. Da una parte attinge al patrimonio visivo della controcultura sessantottina — poster psichedelici, collage situationisti e l’uso espressivo della fotografia documentaria — dall’altra incorpora la sobrietà tipografica e la leggibilità necessarie a una rivista moderna. Questo mix è riconducibile a due tendenze storiche: la prima è l’estetica del détournement e della sovversione visiva (che porta con sé il gusto per il montaggio e la frattura della pagina); la seconda è la lezione delle riviste musicali mainstream che hanno saputo sistematizzare le informazioni con griglie, colonne e gerarchie visive, garantendo al lettore un’esperienza di lettura agevole. Shindig! occupa lo spazio intermedio: non sacrifica l’irregolarità che segnala autenticità e non rifiuta gli strumenti tipografici che danno credibilità e circuito di vendita.
La lezione di Shindig! è duplice e concreta. La prima è che l’underground non è necessariamente incompatibile con la professionalità: la cura per la carta, la qualità della fotografia, la regia redazionale non snaturano una pratica autonoma, la rendono piuttosto più resistente e capace di arrivare a nuove platee.
La seconda è che la forma stessa — quell’equilibrio tra segni grezzi e impaginazione studiata — comunica un messaggio: la storia non è una vetrina patinata ma un organismo vivo, fatto di scarti, resti e scoperte. Leggere Shindig! significa farsi guidare da chi ha trasformato la passione per dischi rari e storie sotterranee in una pratica editoriale che parla a chi vuole capire, collezionare e, magari, fare a sua volta. In un’epoca in cui tutto è accessibile ma poca cosa viene contestualizzata, riviste come questa ricordano che il valore culturale sta nell’ordito: storie raccontate con cura, grafiche che parlano tanto di passato quanto di presente, e una comunità che non smette di cercare.

La Onda: psichedelia e repressione nella controcultura messicana
A cavallo tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, mentre a San Francisco si esaurivano gli echi dell’utopia flower power e l’America Latina si infiammava sotto il peso delle dittature militari e della Guerra Fredda, in Messico un’onda silenziosa ma potente cominciava a montare. Non fu solo un movimento musicale, né un semplice derivato tropicale dell’hippismo nordamericano. La Onda fu un fenomeno culturale autonomo, ibrido, radicato in una gioventù urbana inquieta, più politicizzata, arrabbiata, ma anche creativamente affamata. Un magma in cui convivevano rock psichedelico, poesia, riviste underground, arte visuale, militanza studentesca e disobbedienza estetica.
Festival de Avándaro, 1971
Il termine “La Onda” nasce come slang giovanile — un modo per dire “che onda?”, ovvero “che succede?”, ma anche per indicare uno stile, una vibrazione, un clima. Diventa presto una sigla informale ma riconosciuta per identificare un’intera generazione di giovani messicani nati sotto il regime del PRI (Partido Revolucionario Institucional), educati in scuole statali, ma profondamente influenzati dalla cultura pop globale, dai dischi dei Beatles e dei Doors, dalle riviste statunitensi, dal cinema europeo, da Pasolini e Godard. A differenza del coevo movimento hippie statunitense, però, La Onda non si rifugiava nella fuga mistica o nel mito del ritorno alla natura. Il suo cuore pulsava nelle metropoli — Città del Messico in primis, con epicentri alternativi come il quartiere di La Roma — e aveva nella contestazione del sistema e nella critica al conformismo post-rivoluzionario messicano i suoi assi centrali. La musica fu il collante. I gruppi come Los Dug Dug’s, Three Souls in My Mind, El Ritual, La Revolución de Emiliano Zapata prendevano i codici del rock anglosassone e li traducevano in una grammatica sonora locale, contaminata, spuria. La lingua spagnola affiorava timidamente nei testi, ma era la sonorità ad appropriarsi del linguaggio universale del fuzz, dei wah-wah, delle jam improvvisate, delle armonie lisergiche. La grafica dei loro dischi, autoprodotti o editi da etichette minori, assumeva uno stile visionario, fatto di collage surreali, corpi nudi stilizzati, colori saturi e lettering liquido, in evidente dialogo con i manifesti psichedelici californiani, ma contaminati da un immaginario precolombiano, quasi sempre reinterpretato con ironia o rabbia.
Il vertice di questa energia convergente fu il Festival Rock y Ruedas de Avándaro, tenutosi nel settembre del 1971 sulle rive del lago Valle de Bravo. Era nato come evento sportivo legato alle corse automobilistiche, ma fu rapidamente fagocitato dall’entusiasmo giovanile e divenne, per effetto domino, il Woodstock messicano. Oltre 200.000 ragazzi e ragazze arrivarono da tutto il paese, attirati dalla promessa di libertà, musica e controcultura. Sul palco si alternarono gruppi rock, alcuni dei quali tennero set infuocati in stile heavy-blues; nel pubblico si danzava, si gridava contro l’autorità, si faceva uso collettivo di marijuana. Un ragazzo salì sul palco completamente nudo e la stampa conservatrice impazzì. Le immagini — rare e fortemente censurate — mostrano un’estetica tipicamente underground: cartelloni scritti a mano, scenografie artigianali, fiori intrecciati nei capelli, camicie colorate, simboli della pace e disegni naïf ovunque. Il poster ufficiale, oggi oggetto di culto, miscelava tratti da comic book statunitensi con grafiche optical e trame tradizionali. Ma Avándaro fu anche la fine. Il governo messicano, che già tre anni prima aveva mostrato il volto più spietato del regime nella strage di Tlatelolco (1968) — centinaia di studenti massacrati a Piazza delle Tre Culture da militari in borghese — vide nel festival una nuova minaccia. L’intelligenza visiva, la capacità di aggregazione spontanea, la visibilità mediatica delle nuove generazioni: tutto risultava pericoloso. Subito dopo Avándaro, il rock fu ostracizzato dai media ufficiali. Radio e televisioni lo bandirono, etichette discografiche chiusero le porte ai gruppi della scena, i concerti furono vietati o duramente repressi. Molti artisti finirono nell’underground più profondo, alcuni si sciolsero, altri si reinventarono. Iniziò così l’era dei “Hoyos Fonqui”, luoghi clandestini, scantinati urbani dove la musica continuava a vivere, al riparo dallo sguardo della polizia e dalla censura morale. Sul piano grafico, proprio questa fase clandestina generò una vera fioritura di creatività visiva radicale. Senza i vincoli del mercato, illustratori e designer legati alla scena Onda produssero poster, volantini e copertine con tecniche DIY: stencil, serigrafia, fotocopie alterate, collage psichedelici, inserti tipografici distorti. Uno degli snodi più vitali fu la rivista “Piedra Rodante”, versione messicana e più militante di Rolling Stone, che combinava articoli politici, recensioni musicali, fumetti underground e una grafica tagliente. Altri nomi centrali nella scena visiva furono José Luis Cuevas, già noto per i suoi disegni satirici, e il collettivo di illustratori noto come “La Familia Burrón”, che si muovevano fra grafica popolare e avanguardia, tra arte e critica sociale. Non si può comprendere La Onda senza leggere i suoi codici visivi: la sovrapposizione di simboli aztechi e lettering acido, l’uso consapevole della cultura visiva urbana, i richiami alla grafica politica cubana e alle serigrafie di Emory Douglas, l’iconografia rivoluzionaria trattata con uno spirito ludico ma sovversivo. Il layout dei manifesti underground, spesso realizzati su carta scadente, era in sé una dichiarazione di rottura: impaginazioni volutamente sbilanciate, lettering manuale e caotico, elementi tipografici in collisione con figure astratte e testi criptici. La grafica, in questo senso, non era solo decorazione: era azione visiva, arma estetica, contenuto politico travestito da estetica pop. Se il rock nordamericano aveva la retorica della fuga, e quello inglese un tono nichilista, La Onda era un’estetica della resistenza. I suoi protagonisti non erano solo artisti: erano obreros culturales, operai della cultura, come si definivano alcuni di loro. La loro opera era totale, incarnata nella musica, nell’immagine, nella parola scritta e parlata. Il tentativo era quello di sovvertire la narrazione ufficiale, smascherare l’ipocrisia del modernismo istituzionale messicano, e far esplodere nuove forme di soggettività politica.Il paragone con i Sixties californiani regge solo in parte. La Onda fu sicuramente influenzata dal Summer of Love, dai dischi lisergici, dal rifiuto della guerra e del capitalismo. Ma aveva una profondità storica diversa, un senso più urgente del pericolo e del sacrificio, un legame più profondo con il territorio e con le lotte concrete del proprio tempo. Fu meno naïf e più aspra. Meno Woodstock e più barricata grafico-sonora. E anche quando fu repressa, frantumata, riscritta dalla storiografia ufficiale, la sua eco visiva e sonora continuò a risuonare. Nei graffiti di strada, nelle autoproduzioni degli anni Ottanta, nel ritorno degli illustratori underground messicani contemporanei, nei festival di graphic design indipendente. La Onda non fu solo un movimento. Fu un dispositivo visivo, un cortocircuito linguistico, un layout dell’anima giovane di un paese che stava cercando di reinventarsi — con rabbia, poesia, musica e inchiostro.
La familia Burrón
3/Bici Manifesto: la BMX
Eccoci al termine del nostro approfondimento sulle bici che hanno fatto la storia della controcultura. Dopo aver visto la Schwinn Sting-Ray e la Raleigh Chopper, non poteva mancare lei, forse la bicicletta che, prima dell’avvento della Mountain Bike, è riuscita a rivoluzionare non solo il bike design, ma il concetto stesso di bicicletta.
Nel cuore della California suburbana dei primi anni ’70, mentre i giovani americani inseguivano sogni di acrobazie improbabili a bordo di scarne tavole in legno con 4 ruote di ferro nelle piscine abbandonate delle ville dei ricchi, sui marciapiedi consumati nasceva la BMX.
Non fu una nascita pianificata: l’idea sbocciò fra i lotti di bici abbandonate, fra dune di terra e cave industriali, dove bambini e outsider reinventavano le biciclette dei fratelli maggiori. Spinti dal mito dei piloti su due ruote, iniziavano a saldare, smontare e personalizzare ogni componente. L’estetica della fuga urbana era già realtà prima delle mode e degli sponsor.
Il boom della BMX si deve anche a una scena realmente accaduta: nel 1971, il documentario On Any Sunday immortalò l’immagine di un bambino che, in sella a una bici artigianale, imitava i campioni del motocross, volando tra le buche improvvisate di un campo polveroso. Questo fotogramma accese il desiderio di un’intera generazione: da quel momento, la bici non era più solo mezzo, ma detonatore di rivolte suburbane.

Pochi anni dopo, figure chiave come Scot Breithaupt organizzarono le prime gare illegali nelle periferie di Long Beach, tracciando piste a mano, segnando con la calce le curve e battendo su tamburi per radunare tribù di adolescenti. Nel 1973, la Mongoose Motomag innestò il primo telaio pensato esclusivamente per il salto e lo sterrato, seguito dalla Redline Squareback.
Ogni gara era una festa per la personalizzazione, una liturgia nel nome della creatività radicale e del rifiuto del consumismo prefabbricato.



La costellazione delle riviste BMX: voce e specchio della scena
La crescita tumultuosa della BMX trovò un alleato fondamentale nelle riviste specializzate, capaci di documentare, celebrare e diffondere la cultura underground del movimento. Nel giugno 1973 esce la prima pubblicazione dedicata: “Bicycle Motocross Magazine”, editata da Elaine Holt, che raccoglieva già interviste e recensioni di attrezzature pionieristiche e riportava i risultati di gare clandestine. Nel 1977, Bob Osborn dà vita a “BMX Action”, la Bibbia degli appassionati: le sue fotografie, l’impaginazione sperimentale e le rubriche dedicate allo stile contribuirono a elevare la BMX a fenomeno globale e underground insieme. In parallelo, “BMX Plus!” divenne una fanzine cult per una nuova generazione di lettori, mescolando recensioni, stories di rider e consigli DIY sulle modifiche tecniche. Non solo cronaca: queste riviste crearono un linguaggio grafico fatto di loghi audaci, collage, lettering aggressivo e cromie acide—anticipando il visual punk e l’estetica delle fanzine street anni ’80.


Una figura centrale nella storia della BMX è Bob Haro, non solo come pilota e innovatore del freestyle, ma anche come artista visivo che ha contribuito a plasmare l’identità estetica della cultura underground legata a questa disciplina.
Nei primi anni ’70, mentre la BMX muoveva i primi passi da fenomeno di periferia verso una vera e propria sottocultura con un proprio linguaggio, Haro iniziò a collaborare con Bicycle Motocross Action.
In qualità di freelance, Haro realizzò per la rivista una serie di tavole a fumetti che raccontavano con ironia e vivacità le gesta quotidiane e le avventure immaginarie dei rider BMX.
Questi fumetti non erano semplici illustrazioni, bensì veri e propri racconti visuali che interpretavano l’esperienza collettiva dei giovani appassionati, esprimendo la loro voglia di libertà, sperimentazione e ribellione. Lo stile di Haro mescolava elementi grafici tratti dalla cultura pop, dal fumetto underground e dalla grafica psichedelica, creando un’estetica fresca e dinamica che si ancorava saldamente all’immaginario di strada e alla scena emergente DIY.
L’impatto di queste tavole fu immediato e profondo: riuscirono a catturare l’attenzione e l’entusiasmo dei più giovani, fungendo da catalizzatore identitario per una generazione che vedeva nella BMX molto più di uno sport—una forma di espressione culturale a tutto tondo. La commistione tra fumetto, grafica e cultura urbanistica proposta da Haro anticipò e influenzò la comunicazione visuale di molte altre realtà underground americane che poi si svilupparono negli anni ’80, incluse la scena punk, la street art e il nascente hip-hop.
In questo incrocio tra media, contenuti e comunità, Haro svolse un ruolo da pioniere: le sue tavole sfidavano i confini tra arte e sport, legittimavano il linguaggio visivo di una controcultura e contribuirono a evolvere la narrativa della BMX da semplice pratica atletica a fenomeno culturale con valenze iconiche. Questo legame originario tra illustrazione e cultura underground rimane ancora oggi un punto di riferimento per i graphic designer, gli artisti e gli appassionati di BMX che cercano ispirazione nelle radici più autentiche del movimento.


L’impatto sulla grafica: tra psichedelia, DIY e contaminazioni pop
La BMX non è solo sport: la sua influenza sulla grafica e sulle arti visive fu dirompente. Negli anni Settanta, le biciclette abbandonavano la timidezza industriale: loghi sgargianti, numeri stilizzati e sponsor apparivano incollati su ogni parte del telaio. L’estetica dei magazine esaltava la sperimentazione: titoli sfalsati, colori shock, layout spezzati e foto in sequenza dinamica evocavano la velocità e la tensione di una gara improvvisata. L’impronta grafica contagiava abbigliamento tecnico, poster, striscioni di eventi clandestini e perfino le prime maglie da gara, che per la prima volta diventavano arene di sperimentazione visuale e serigrafica.
La cultura BMX si fuse così con il graffitismo della street art e delle tag condivise da rider e writer; le BMX divenivano veri e propri rolling canvases, con adesivi personalizzati, verniciature psichedeliche, grafiche ispirate alle copertine dei dischi funk, garage, punk. Le biciclette si trasformarono in simboli mobili dell’espressione artistica underground: ogni graffio, decalcomania e collage urlava appartenenza e sabotaggio delle regole visive borghesi.
La BMX, più di ogni altra invenzione ciclistica, fu veicolo di una nuova socialità underground. Già dall’inizio, la disciplina venne praticata ai margini dei contesti canonici—nei lotti abbandonati, dietro i centri commerciali, nei quartieri dimenticati dai regolamenti sportivi.
Le crew si formavano per affinità di stili e di gusti musicali: l’estetica della BMX si ibridava con quella degli skater, dei writer e dei breaker. Le prime immagini pubblicate da Skateboarder Magazine a metà anni ’70 documentavano l’incontro fra BMX e skate, rivelando uno spazio comune di devianza creativa dove il trick era tanto gesto atletico quanto atto di affermazione identitaria.
L’energia DIY, la voglia di personalizzazione esasperata e la capacità di ridefinire i limiti urbani resero la BMX una vera piattaforma per la propagazione di estetiche alternative—un ponte tra la punk culture, la psichedelia e il nascente hip-hop.
Le BMX giravano nei videoclip dei primi rapper, comparivano ai margini delle jam e dei contest graffiti, transitando dalle mani degli outsider californiani a quelle dei kids in Europa e Giappone.


La saga della BMX — iniziata come gioco clandestino e diventata veicolo globale di culture sotterranee — ha lasciato un’eredità visiva e sociale senza uguali. Ha saputo generare comunità, polverizzare codici estetici, promuovere la cultura DIY e contaminare arti, moda e grafica ben oltre lo sport. Dai primi numeri di BMX Action e BMX Plus! fino alle maglie personalizzate e alle mostre di graphic design contemporaneo, la BMX parla ancora la lingua visiva dei ribelli, degli inventori e degli inclassificabili.
E ogni salto su una pista sterrata, ogni numero di vecchia rivista ritrovata in soffitta, è il battito ancora vivo di una rivoluzione urbana che non ha mai smesso di pedalare.


Festival Express: rotaie cosmiche attraverso il Canada
Il Festival Express fu un viaggio in treno attraverso il Canada nell’estate del 1970, ma sarebbe riduttivo chiamarlo semplicemente un festival. Fu piuttosto una visione utopica messa su rotaie, un esperimento sociale in movimento, un sogno che durò pochi giorni e che ancora oggi sembra appartenere a un’altra dimensione. L’idea era venuta a due promoter canadesi, Ken Walker e Thor Eaton, che decisero di portare alcune delle più grandi band del tempo da una città all’altra non stipate in aerei o autobus, ma dentro un lungo treno speciale allestito con vagoni letto, carrozze ristorante e soprattutto un vagone trasformato in sala prove, un santuario mobile dove la musica poteva sgorgare ventiquattro ore su ventiquattro. A bordo salirono i Grateful Dead, i The Band, Janis Joplin con la Full Tilt Boogie Band, i Delaney & Bonnie con Eric Clapton, i Flying Burrito Brothers, Buddy Guy, Ian & Sylvia con i Great Speckled Bird, Tom Rush e altri ancora, un’alleanza di nomi che oggi sembrano scolpiti nella leggenda ma che allora erano carne e ossa, strumenti e sudore, sorrisi e stanchezze mescolate insieme nello stesso convoglio.


Il contesto era quello di un’epoca sospesa tra la fine dell’innocenza e l’inizio del disincanto. Woodstock era passato da un anno appena, il mito dell’utopia collettiva aveva già iniziato a incrinarsi con gli incidenti di Altamont, e in Nord America si respirava un’aria di tensione politica che il Canada condivideva con il vicino americano: la guerra in Vietnam, i movimenti studenteschi, le proteste contro il potere e la polizia. Portare un festival itinerante di più giorni attraverso le province canadesi non era soltanto un’operazione musicale, ma anche un gesto politico e sociale, un tentativo di far viaggiare una comunità insieme alle sue canzoni, alle sue storie e ai suoi ideali. L’atmosfera che si respirava nelle città d’arrivo era contraddittoria: da una parte l’attesa febbrile dei ragazzi che volevano vedere i propri idoli, dall’altra le contestazioni legate al prezzo dei biglietti, giudicato troppo alto per un evento che avrebbe dovuto appartenere al popolo. A Toronto e Winnipeg le proteste furono accese, con manifestanti che chiedevano concerti gratuiti e che a volte sfiorarono lo scontro con la polizia. Molti artisti capirono quelle ragioni e improvvisarono set liberi all’aperto, come fecero i Grateful Dead, nel tentativo di riconciliare lo spirito comunitario con l’inevitabile macchina commerciale. Ma ciò che rende il Festival Express unico non sono tanto i concerti in sé, sebbene straordinari, quanto la vita sul treno. Ogni fermata diventava un capitolo, ma era durante il movimento, nello scorrere dei binari tra le praterie infinite e le montagne canadesi, che accadeva la magia. I musicisti si passavano bottiglie, si scambiavano strumenti, improvvisavano jam senza fine: Janis Joplin che canta nel cuore della notte con Jerry Garcia al banjo e Rick Danko al basso, Buddy Guy che accende il vagone con un blues viscerale, Delaney & Bonnie che tirano fuori gospel e soul come se fossero in chiesa, mentre Clapton accompagna in punta di dita. Era una comunità provvisoria e irripetibile, un laboratorio sonoro in cui generazioni, generi e personalità diverse si incontravano senza gerarchie. Il treno non era soltanto un mezzo di trasporto, era la metafora di un’epoca che cercava ancora una direzione, un senso collettivo, un’armonia che nella società fuori sembrava sempre più difficile da trovare.
I concerti, dal canto loro, furono memorabili. A Toronto, Winnipeg e Calgary il pubblico si accalcava sotto il sole, inebriato dalla possibilità di vedere tanti nomi insieme sullo stesso palco. Janis Joplin, in quella che sarebbe stata una delle sue ultime grandi apparizioni prima della morte, esplose in performance incandescenti, trascinando la folla con una voce che sembrava divorare la vita in ogni nota. I The Band offrirono la loro miscela di rock e radici americane, con Robbie Robertson e Levon Helm che incarnavano un suono al tempo stesso antico e moderno. I Grateful Dead portarono il loro rituale psichedelico, più dilatato e sognante che mai. Eric Clapton, timido e quasi riluttante, si lasciò trascinare dal calore degli altri musicisti, abbandonando la freddezza del virtuosismo per abbracciare lo spirito della condivisione. Ogni concerto era una tappa di un viaggio più grande, una parte di un mosaico che solo chi era presente poteva cogliere nella sua interezza.
Ma il Festival Express viveva anche fuori dai binari e dai palchi, nelle strade e nei muri delle città dove sarebbe approdato.



I poster ufficiali del Festival Express del 1970, oggi oggetti da collezione che galleggiano nelle pieghe della memoria psichedelica, furono concepiti da grafici locali legati alla scena canadese, con uno stile che tradiva l’influenza diretta dei grandi atelier underground di San Francisco e Londra. Guardarli oggi è come avere tra le mani la promessa grafica di un’utopia itinerante: più che pubblicità, erano dichiarazioni d’intenti, piccoli manifesti di controcultura che avrebbero potuto stare accanto alle pareti di un collettivo studentesco o alle bacheche di un campus, più che nelle vetrine dei negozi ufficiali.



Culturalmente, il Festival Express segnava un punto di transizione. Era ancora imbevuto dello spirito comunitario degli anni Sessanta, con la sua idea che la musica potesse unire, curare, creare legami, ma mostrava anche le fratture emergenti: i conflitti sul denaro, le tensioni tra pubblico e organizzatori, la difficoltà di sostenere logisticamente un’utopia quando questa deve fare i conti con biglietti, costi e realtà materiali. Quell’estate del 1970 in Canada non era più l’estate dell’amore, era piuttosto un’eco prolungata, un tentativo di non arrendersi alla disillusione. Sul treno si respirava una libertà assoluta, fuori dal tempo, ma nelle città si percepiva già l’arrivo di un’epoca diversa, più dura, meno ingenua.
Oggi, guardando indietro, il Festival Express appare come una delle ultime vere celebrazioni della musica come comunità nomade e temporanea. Non un raduno statico, ma un viaggio in sé, con i suoi binari che tagliavano il paesaggio canadese come una linea melodica infinita. Fu un’esperienza irripetibile, non replicata e forse non replicabile, perché legata a un momento storico preciso, quando ancora si poteva credere che un treno pieno di musicisti e ragazzi potesse cambiare qualcosa, o almeno offrire l’illusione di un mondo diverso, fatto di note, sorrisi e rotaie che scorrevano sotto i piedi.

2/Bici Manifesto: la Raleigh Chopper
Dopo che abbiamo conosciuto la storia della Schwinn Sting-Ray, continuiamo la nostra analisi delle biciclette che hanno fatto la storia del bike design accompagnando l’evoluzione delle principali sottoculture underground.
Eccoci oggi a parlare della famosa Raleigh Chopper.
La fine degli anni ’60 in Inghilterra è uno scenario dove l’industrializzazione incontra l’alienazione suburbana. Nottingham, città operaia e cuore della Raleigh, sta attraversando uno dei suoi momenti più difficili: le biciclette tradizionali arrancano nelle vendite, i giovani non si riconoscono più nei modelli classici, il sogno americano colora le periferie inglesi. Su questo sfondo nasce la Raleigh Chopper, figlia dell’urgenza aziendale ma anche della tensione tra cultura di massa e desiderio di distinzione.
Alan Oakley, incaricato dalla Raleigh di sondare nuove tendenze oltre Atlantico, individua la forza simbolica delle “chopper” motociclistiche e, in omaggio alla libertà sbandierata nel film Easy Rider, immagina una bicicletta per chi non accetta di crescere inquadrato. Lo schizzo che traccia durante il volo di ritorno non è semplicemente un disegno tecnico, ma un vero atto di appropriazione estetica: importare il mito americano e ridisegnarlo per il disagio esistenziale suburbano inglese.

Design radicale e contaminazioni visive
La Raleigh Chopper non è un esperimento isolato ma il risultato di un meticciato formale e culturale. Se la Schwinn Sting-Ray aveva già seminato idee negli Stati Uniti, la Chopper le estremizza: il manubrio “ape hanger” richiama le dragster e i chopper delle Harley Davidson, la sella lunga prende ispirazione dalle moto custom, la leva del cambio centrale — così visivamente aggressiva — diventa il cuore di una nuova ritualità.
Ogni dettaglio sembra gridare distacco dalla funzionalità pura: la ruota posteriore sovradimensionata, il telaio a doppio tubo che evoca strutture hot rod, i colori acidi, la barra posteriore cromata per acrobazie improvvisate. Oltre l’aspetto, la stessa postura di chi la guida — schiena curva e braccia larghe — diventa una dichiarazione estetica. Si tratta di una grammatica visiva trasformata in linguaggio identitario, un cliché punk ante-litteram che travalica la bicicletta quale mezzo di trasporto per diventare mezzo di affermazione.


Cultura pop, ribellione giovanile e status symbol underground
A partire dal suo debutto ufficiale nel 1969, la Chopper colonizza l’immaginario. Per la working class britannica, spesso senza accesso alla Vespa o alla Mini Cooper, la bicicletta diventa un surrogato ambizioso di libertà e potere.
Nel contesto culturale della suburban England, con i servizi sociali in crisi, la Chopper rappresenta una piccola fuga: consente di appropriarsi degli spazi urbani, reinventando le periferie e sfidando l’ordine adulto sia nei parchi sia nei vicoli grigi. Le pubblicità ne enfatizzano il carattere ribelle, allineandosi a una cultura pop che rilegge i miti americani con taglio ironico e dissacrante. Sono anni in cui le sottoculture giovanili — dal glam al garage punk — trovano proprio nella Chopper un oggetto-bandiera: la sua estetica eccessiva risponde agli eccessi visivi dei poster rock e delle copertine dei dischi.
La paternità della Chopper è tuttora materia discussa. Alan Oakley è il nome più accreditato, ma Tom Karen (Ogle Design) e l’intero settore creativo della Raleigh reclamano ruoli nel processo. Questa mancanza di paternità chiara dona alla Chopper uno statuto di leggenda underground: non c’è un solo genio, ma una fucina collettiva di outsiders. Persino i tentativi successivi di imitazione (inclusi i modelli europei e giapponesi) rafforzano il suo profilo apolide e camaleontico.
Nella cultura visuale degli anni ’70, questo approccio estetico aperto viene adottato da artisti, musicisti e graphic designer in cerca di un lessico visivo dissidente e destabilizzante.
Eredità estetica e influenza sulla cultura underground
Nel corso degli anni la Chopper sopravvive come feticcio iconografico. Sperimentatori come Malcolm McLaren — il manager dei Sex Pistols — mescolano dettagli “chopper” agli ambienti punk e new wave; nei film e nei videoclip la bicicletta appare come elemento evocativo di ribellione e artificio scenico. Persino il riscoprire la Chopper negli anni 2000 rientra in un processo postmoderno di recupero e rilettura dei simboli pop, questa volta senza nostalgia ma con volontà di sabotaggio delle narrazioni dominanti. La postura sovversiva che proponeva negli anni ’70 sopravvive nei dettagli delle BMX, nel revival estetico del low rider, nella moda streetwear che la riecheggia esplicitamente attraverso colori, linee e accessori.
La vera eredità della Raleigh Chopper non si esaurisce nelle vendite record o nella rivoluzione dell’estetica ciclistica inglese: il suo impatto va cercato negli slittamenti culturali sotto traccia, nell’aver fornito ai ragazzi degli anni Settanta un oggetto capace di incarnare la sete di alterità e la voglia di mettere in discussione l’ordine costituito. È stata un simbolo condiviso, un linguaggio trasversale che ha attraversato la working class e le avanguardie creative, ridefinendo le coordinate della cultura underground europea. Chiunque ne abbia posseduta una, aveva tra le mani molto più di una bicicletta: un innesco piccolo, ma potentissimo, di rivoluzione personale.


Demolition Derby Cliff Jump e l’America che distrugge sé stessa per sentirsi ancora viva
Ogni macchina che cade è una confessione collettiva, una preghiera rugginosa lanciata nel vuoto. E sotto, il popolo guarda, applaude, beve e ride: perché se non possiamo salvarci, allora vogliamo almeno assistere alla nostra fine con stile.
Nel cuore selvaggio dell’Alaska, in un angolo remoto e poco segnato dalle grandi mappe della narrazione americana, sorge Glacier View: un nome che evoca distese di ghiaccio e silenzi, una frontiera moderna eppure già sentita da chi ha attraversato la letteratura dei margini e dei confini perduti. Lì dove la strada statale Glenn Highway curva tra le montagne, ogni 4 luglio, invece della rassicurante processione di fuochi artificiali e parate, va in scena uno spettacolo che oltrepassa il folklore locale per collocarsi nella mitologia della distruzione rituale americana: il Demolition Derby Cliff Jump. A prima vista, la cronaca è semplice quanto assurda — vecchie auto raccolte, svuotate e decorate alla bell’e meglio vengono lanciate giù da una scogliera di almeno 90 metri, con il solo scopo di disintegrarle davanti a una folla che grida, applaude, beve birra e documenta febbrilmente ogni esplosione di lamiere, ma la spiegazione razionale finisce dove comincia il bisogno di provare a capire cosa vi sia alla base di tutto ciò.
Le origini dell’evento sono già mito e parodia. Si racconta che la moglie di Arnie Hrncir, uno degli abitanti storici della zona, colpì un alce con la sua Volvo, lasciandola inutilizzabile e troppo costosa da riparare. Non volendo lasciarla marcire, nel 2005 Hrncir ebbe l’idea semiseria di “salutarla” con un gesto plateale: lanciarla giù dalla scogliera per festeggiare il 4 luglio. Un eccesso di praticità che si trasforma subito in rito: da allora, ogni estate, il lancio della macchina diventa evento, attrazione, performance. E se il racconto ufficiale sa di leggenda nata per giustificare un impulso demolitore, il sostrato vero affiora tra le pieghe di una comunità che ha fatto della marginalità – e della resistenza a ogni retorica ufficiale – la propria cifra. È in questo cortocircuito fra necessità, gesto iconoclasta e senso del limite che va cercata la genealogia reale del Cliff Jump perché, in fondo, Glacier View non è solo un luogo: è il simbolo di una promessa rimasta a metà, un luogo di confine dove il sogno americano arriva stanco, azzoppato e inappagato.
Il contesto culturale in cui nasce e prospera il Cliff Jump è quello di un’America periferica, esclusa dalla ribalta della democrazia-spettacolo, segnata da un costante senso di isolamento e disparità rispetto al centro del potere politico, economico e mediatico. Non è un caso che l’evento si svolga proprio nel giorno dell’Indipendenza: mentre la nazione celebra la propria grandezza con gesti cerimoniali pilotati e fuochi pirotecnici prodotti altrove, qui si risponde con una modalità rovesciata di festeggiamento. Nessun discorso ufficiale o parate in costume, ma l’atto crudo di demolire — letteralmente — ciò che altrove viene idolatrato.
Le auto selezionate per il lancio sono spesso donate da chi non ha più nulla da guadagnare dall’orgoglio di possederle, vestite dei colori patriottici o coperte di slogan grotteschi come il classico “Born to Be Wrecked”, come echi di un’identità nazionale ormai svuotata. Il territorio si trasforma in teatro pubblico, la comunità diventa spettatrice e partecipe di un rito in cui la distruzione è, insieme, liberazione e accettazione della sconfitta.
Descrivere cosa avviene durante il Cliff Jump non basta: bisogna raccontare cosa si prova, cosa si vede e cosa rappresentano davvero quei voli di metallo e polvere. C’è una sacralità perversa nel silenzio che precede il lancio, mentre la folla si acquieta e gli occhi dei bambini, dei vecchi e degli ultimi arrivati si fissano sulle lamiere verniciate a stelle e strisce; c’è un momento in cui tutto si ferma, come in una liturgia senza dogma, e poi il boato, il volo, l’urto improvviso che trasforma oggetti carichi di storia personale, sociale, nazionale, in detriti.
La macchina, simbolo centrale della modernità americana — la libertà su quattro ruote, la religione della velocità e della conquista dello spazio, la rappresentazione kustomizzata del proprietario — non è più mezzo di trasporto ma feticcio sacrificale: oggetto rituale e artefatto culturale da distruggere, non per ignoranza o vandalismo, ma per necessità simbolica.
È la “messa nera” del nuovo millennio, una performance iconoclasta che prende il mito, lo polverizza e lo riconsegna alle ceneri di ciò che non può più essere creduto.
Il Cliff Jump si collega a una tradizione di pratiche liminali, di riti di passaggio che sospendono e negano l’ordine costituito. L’evento è la parodia (serissima) di una contro-cerimonia, un carnevale dove però il rovesciamento non porta a nuova liberazione, ma alla consapevolezza cruda dell’assenza di alternativa. Dove il resto dell’America si compiace dell’euforia artefatta della ribalta, Glacier View mette in scena la decomposizione come linguaggio; qui, la catarsi non si manifesta nella danza, ma nel rumore sordo della lamiera che si frantuma, nell’entusiasmo isterico di una folla che ha compreso — forse con più lungimiranza di tanti colti esegeti — che la produttività cui siamo stati addestrati a piegarci è ormai una farsa. Il Cliff Jump, in questa lettura, è meno una celebrazione distruttiva e più una diagnosi sociologica di sopravvivenza: un modo di riconoscersi dentro la perdita di senso, di riconsegnare la verità al linguaggio dei residui, dove ogni sistema ha un punto di rottura e la nazione lo ha superato senza nemmeno accorgersene.
Il Cliff Jump non nasce da una scelta politica o da una piattaforma ideologica, ma da una necessità strutturale, primitiva e viscerale, di sabotare, con atti poetici e materiali insieme, l’ordine simbolico dominante. Dentro, ci si possono riconoscere certi collage punk, il suono sgraziato dei concerti noise lo-fi, l’energia punk e DIY.
Prendete il simbolo più potente e retorico del Sogno Americano, l’automobile, e riducetelo a carcassa tra le risate della comunità, e otterrete il gesto più radicale — e autenticamente politico — che si possa compiere al di fuori della rappresentazione ufficiale. Non serve evocare Debord né i funamboli situazionisti di Parigi: basta osservare la gioia feroce e disillusa della folla quando il cofano si stacca o la ruota balza lontano tra ciuffi di erba e terra. La teoria del détournement trova nella disgregazione meccanica del cliff jump la sua versione definitiva, rurale e istintiva: l’uso improprio dei simboli, la slow-burn della narrazione, la consapevolezza che qui, sul ciglio del nulla, l’unico modo di creare senso è distruggerlo davanti a tutti.
Alla fine della giornata, Glacier View appare più simile a uno scenario post-apocalittico che a una località turistica: le auto giacciono violentate dalla fisica e dalla storia, i colori sbiaditi delle bandiere riverniciate si confondono tra resti e detriti; nessuno le recupera subito, nessuno cerca di dar loro una nuova funzione o una seconda occasione. Rimangono ad agganciarsi al paesaggio, monumenti involontari e installazioni non intenzionali della decadenza del sogno americano, promemoria silenzioso di un’epoca che ha smarrito le sue certezze ma non la voglia di riunirsi, di ridere e piangere insieme. L’evento si inscrive così in una tradizione folk assai distorta, una performance corale che solo chi ha vissuto a lungo ai margini, mescolando ironia e disperazione, può sentire fino in fondo.
Non c’è nostalgia, non c’è utopia, non c’è alcuna redenzione dall’altro lato del precipizio: c’è piuttosto una consapevolezza disillusa, una forma di arte collettiva fatta di rottami e silenzi, che parla più di ogni discorso stampato su depliant o programmato da un comitato.
Il Demolition Derby Cliff Jump è quindi molto più che un’esibizione bizzarra; è il laboratorio sciamanico di una società che ha imparato a convivere con il suo stesso fallimento, un rito di passaggio reiterato che incarna una diagnosi feroce e lucida, “rasoterra”, della modernità americana. È l’ultimo linguaggio disponibile a chi non crede più nelle vecchie profezie, il modo più sincero e spietato di dire, con una lattina in mano e la polvere negli occhi, qualcosa di vero in una società che da troppo tempo sa solo mentire. I suoi fondatori hanno agito senza alcuna base teorica, ma ciò che hanno creato è la dimostrazione che anche un gesto distruttivo, nel luogo e nel momento giusto, può diventare racconto, diagnosi, e — perché no — arte che ci interroga sul suo significato.
1/Bici Manifesto: la Schwinn Sting-Ray
Nell’America della prima metà degli anni ’60, la cultura suburbana si scontrava con l’inquietudine creativa dei ragazzi californiani che, lontani dai codici rigidi del dopoguerra, stravolgevano biciclette anonime per trasformarle in simulacri di chopper. Nacque così un’estetica ribelle: ruote da 20 pollici, selle lunghe “banana”, manubri “ape hanger” e sissy bar cromate comparvero per le strade come dichiarazione di rivolta underground.
Schwinn, gigante della bicicletta commerciale, aveva il polso sul mercato ma rischiava di essere travolta dalla stasi creativa. A Chicago, Al Fritz, responsabile dello sviluppo, intercettò la voce di questa rivoluzione californiana. Nel 1962 partì per osservare di persona le biciclette customizzate nelle periferie di Los Angeles: comprese che dietro a quella destrutturazione estetica c’era più che una moda passeggera, ma un vero linguaggio visivo e sociale dirompente.

Nel 1963, nonostante il sarcasmo dei dirigenti Schwinn, Fritz convinse l’azienda a prototipare la Sting-Ray. La bici fu subito uno shock visivo: il telaio compatto e basso, la sella spropositata, il passo corto, i colori saturi—verde lime, rosso, coppertone, blu e viola—sovvertivano la retorica dell’oggetto “pulito” e adulto. Il debutto dei primi modelli fu un rito d’iniziazione per la cultura underground ciclistica americana.
Radicalità estetica e contaminazioni pop
La Sting-Ray non era solo un veicolo: era un congegno estetico che radicalizzava lo stile del “muscle car”. Ogni dettaglio, dal volante “butterfly” alle ruote svasate, urlava appropriazione e fuga dai protocolli della funzionalità.
L’aspetto provocatorio prendeva a prestito, esasperandoli, i codici delle hot rod e delle Harley: non c’era nulla di borghese in una Sting-Ray, tutto corrispondeva a un atto di sabotaggio del decoro urbano.
La postura del rider, con la schiena arcuata e le mani larghe sul manubrio, rappresentava una sfida silenziosa; le cromature e la leva del cambio nei modelli “Krate” trasformavano ogni corsa nel quartiere in una performance.
La forza più grande della Sting-Ray fu la sua capacità di anticipare l’estetica del futuro prossimo: il suono visivo della psichedelia, i collage di colori delle copertine garage rock, la cultura surf e i primi moti proto-punk trovarono nelle linee spigolose della bici una compagna di segni e inquietudini.
Le pubblicità, veicolate anche su show come Captain Kangaroo, amplificarono il culto di massa, declinando la Sting-Ray come oggetto di sogno e, insieme, come motore di piccole ribellioni.
Cultura underground, status symbol alternativo e personaggi chiave
La Sting-Ray, a differenza delle biciclette da passeggio degli adulti, rappresentava l’impossibilità di conformarsi: era una “muscle bike” da suburban outcast che restituiva senso di potenza e autonomia a chi, costretto al marciapiede e non ancora abilitato al motore, cercava in una bici il proprio rituale di esistenza. In cinque anni, Schwinn vendette quasi 2 milioni di esemplari solo negli Stati Uniti. Alla guida del progetto c’era Al Fritz, visionario e ostinato, capace di imporre il prodotto nonostante l’incredulità iniziale dell’azienda. Chi fu adolescente all’epoca lo ricorda come la figura che ha reso legittima quella voglia di disturbare gli spazi della città, un irregolare all’interno di una multinazionale.
La Sting-Ray divenne uno statement estetico non solo fra gli adolescenti, ma anche presso artisti e musicisti newyorkesi e californiani, attraversando le sottoculture pop e la grafica underground degli anni ’70.
Le declinazioni successive, come la serie Krate (con cambio a leva centrale, forcelle molleggiate, ruote a misura e colori con nomi pop, dal “Lemon Peeler” all’“Apple Krate”), accrebbero il profilo mitologico della bici nel paesaggio visivo americano.


Influenza e lascito sull’estetica underground
Il successo immediato e la diffusione contagiosa della Schwinn Sting-Ray furono alla base di una galassia di imitazioni e contraffazioni: la sua “dissolvenza” negli anni Ottanta, con l’arrivo delle BMX, ne ha solo rafforzato l’aura sotterranea. Il suo impatto, però, è restato: la democratizzazione della personalizzazione, la legittimazione dell’abuso functional del mezzo, la connessione tra design industriale e libertà individuale, sono tutti elementi che la Sting-Ray ha seminato nel tessuto della cultura visuale e musicale americana.
C’è un fil rouge che attraversa le tendenze streetwear contemporanee, i revival custom e l’iconografia della controcultura anni Settanta: posture, colori, accessori e dettagli della Sting-Ray riaffiorano negli immaginari che si alimentano di nostalgia per una ribellione spontanea. Lungi dall’essere un semplice bene di consumo, la bicicletta di Fritz ha reso visibile ciò che prima era solo sussurro marginale, facendo della periferia e dei bambini suoi demiurghi involontari.
La Schwinn Sting-Ray è sopravvissuta come icona, oggetto di collezionismo e simulacro artistico del sogno americano decostruito. Non ha solo modificato le regole estetiche della bicicletta: ha prodotto una fessura attraverso la quale sono passate nuove idee di libertà, autorialità diffusa e underground. La sua eredità—come quella dei grandi simboli trasversali—non si misura in pezzi venduti, ma nella qualità inquieta delle micro-rivoluzioni che ha saputo innescare.

Uschi Obermaier: la bellezza che brucia l’impero
C’è una frase che ha accompagnato per decenni la narrazione (e la mitizzazione) della modella Uschi Obermaier: “Too beautiful to be political.” Eppure, nulla è stato più politico, negli anni Sessanta e Settanta, del corpo di Uschi. Un corpo che non era solo fotogenico… era iconografico. Una figura capace di far collassare la barriera che separa bellezza e militanza, libertà e spettacolo, desiderio e potere. Il suo viso, il suo sguardo disarmante, la sua nudità ostentata senza paura, erano armi di una guerra silenziosa contro le convenzioni borghesi dell’Europa post-bellica.


Nata nel 1946 a Monaco di Baviera, in una Germania ancora distrutta e conservatrice, Uschi Obermaier cresce in una famiglia operaia e si avvicina alla fotografia per caso. Ma è la collisione con la scena alternativa e bohémien del Kommune 1 di Berlino a fare di lei la musa della rivolta. Non solo modella, ma figura centrale di un immaginario controculturale che mescolava Marx e Jimi Hendrix, Che Guevara e l’LSD. Uschi divenne famosa per essere la donna più fotografata della Germania, ma la verità è che era anche la meno addomesticabile. Non solo appariva sulle riviste di moda, ma anche sulle barricate. Non solo posava per i più grandi fotografi, ma rifiutava il patriarcato con gesti concreti: sesso libero, nomadismo radicale, rifiuto del matrimonio, viaggi con i Rolling Stones, LSD.
Il suo rapporto con la grafica e l’editoria underground fu diretto e feroce. Le sue immagini, spesso non filtrate, venivano pubblicate su riviste alternative come Konkret, Twen, SPUR, oltre che sulle copertine psichedeliche tedesche più audaci, che cercavano una sintesi visiva tra estetica beat e surrealismo sessuale. La Obermaier fu anche protagonista di innumerevoli poster, fanzine e collage politici. Lontana dal glamour vuoto delle “modelle da rivista”, Uschi si collocava piuttosto nella linea delle agitprop girl, come Jane Fonda ai tempi del Vietnam o Patty Hearst post-conversione armata. Ma con una consapevolezza che ricordava le avanguardie dadaiste e il cinema della Nouvelle Vague: la camera come arma, il corpo come linguaggio.


La sua bellezza fu oggetto di sfruttamento commerciale, ma anche di risemantizzazione. I collage degli anni Settanta la raffigurano spesso come una dea punk, un misto tra Afrodite e Angela Davis, circondata da simboli di pace, acidi, simboli fallici tagliati e ricomposti. Una estetica del sabotaggio, in cui il bello non era sinonimo di conformismo, ma di disintegrazione delle gerarchie. In questo, Uschi si collega visivamente a figure come Anita Pallenberg, Nico e Marianne Faithfull, ma anche a muse underground come Viva di Warhol o Penelope Tree. L’originalità di Uschi sta nel fatto che il suo corpo è stato un editoriale vivente: ogni sua posa, ogni sua fuga, ogni sua relazione (da Rainer Langhans a Mick Jagger, da Keith Richards al surfista Dieter Bockhorn) è stata una frase, un paragrafo, un assalto all’ordine. In un’epoca in cui la bellezza femminile era incasellata tra pubblicità e passività, Uschi Obermaier la trasformò in resistenza iconica.La sua autobiografia, High Times – Mein wildes Leben, è un atto di sabotaggio narrativo: una storia raccontata senza sensi di colpa, senza maschere, senza filtro Instagram. In anticipo di decenni sul femminismo post-porno e sulla body positivity, Uschi dichiarava che non avrebbe mai scambiato la libertà con la carriera. “Non ho mai voluto essere una star. Volevo solo vivere.” E in quella vita, vissuta come performance continua, come arte relazionale estrema, si trova la vera lezione estetica e politica: il corpo non come oggetto da vendere, ma come campo da battaglia. E come manifesto underground, ancora più radicale perché impossibile da incasellare.

Non si scrive per vincere
C’era questa sera, non molto tempo fa, in cui ero solo, fuori faceva caldo e buio, e nelle cuffie mi è arrivata L’ultima cosa oltre l’amore di Giovanni Truppi. Non so nemmeno perché l’ho messa in play, forse per caso, forse per istinto. Ma so che, quando è arrivato il finale – “È quella cosa che ci divide / Tra chi simpatizza con chi vince e dall’altra parte / Ovunque da sempre e per sempre / Chi simpatizza con chi perde” – mi sono fermato. Non solo con il corpo. Ho sentito che c’era qualcosa che mi stava passando accanto e che non voleva farsi acchiappare. Una malinconia densa, quasi stanca. Un senso di verità che si mescola col veleno della rassegnazione. Perché quel finale, ogni volta che lo ascolto, mi resta in gola come una promessa spezzata: bella, sì, ma zoppa. Una carezza che arriva tardi, dopo la fucilazione, dopo l’esilio, dopo l’archiviazione.


E ho pensato: cos’è davvero quella “cosa” oltre l’amore? È ideologia? È coscienza? È memoria? È la parte di noi che ci fa prendere posizione? Che ci fa schierare con chi non ha potere, con chi cade, con chi scompare? È lo stesso tono che ritrovo – anzi: che rincorro – nelle poesie partigiane antifasciste. Lo stesso brivido tra il sogno e la condanna. Quelle poesie, come quella canzone, non hanno mai la soddisfazione del trionfo. Non raccontano vittorie, raccontano chi ha tenuto duro mentre tutto crollava. Raccontano chi si è portato la dignità nella tomba e chi ha lasciato due righe scarabocchiate su un pezzo di cartone come unico testamento. E allora sì, capisco Truppi: quella “cosa” è la linea che ci divide, che ci schiera, che ci inchioda al fatto che non siamo neutrali, mai. E capisco anche perché non riesco mai a godermi quel finale con leggerezza. Perché non c’è niente di leggero in ciò che ci definisce nel profondo. E perché le parole – quelle vere – non sono mai innocue.


Le poesie partigiane non parlano ai vincitori. Non chiedono medaglie. Non vogliono nemmeno essere ricordate, se ricordare significa metterle in una teca. Quello che vogliono è restare vive. Come quella “cosa” senza nome. Che ci guarda, ogni giorno, e ci chiede da che parte stiamo. Anche adesso. Anche se fingiamo di non sentire. La poesia partigiana antifascista non nasce nei salotti. Non la trovi nei licei classici né nei teatri municipali. Nasce col sangue in bocca, sotto le bombe, nelle celle, nei rifugi di fortuna, nei cessi ghiacciati delle montagne. È roba scritta in fretta, spesso a memoria, a volte con l’inchiostro, più spesso con la paura. La poesia dei partigiani non chiede permesso: spara. È figlia di un’Italia sfondata, schiacciata tra il crollo del fascismo e l’arrivo degli americani, tra i rastrellamenti nazisti e le vendette da quattro soldi. Non ha stile, ha urgenza. Non cerca il Nobel, vuole solo che qualcuno sopravviva abbastanza da ricordare un nome, un volto, una canzone. È difficile dire chi l’abbia iniziata. Forse un contadino che scrive due righe per sua madre prima di essere fucilato. Forse una staffetta che canta di notte per scacciare la morte. Poi qualcuno comincia a raccogliere i pezzi. A Torino, a Milano, a Roma. Calvino, Fortini, Pirelli. Gente con le mani sporche di stampa e le tasche piene di comunismo. Cominciano a mettere insieme i versi, a pubblicarli. Ma non è poesia da antologia: è roba che brucia. Ogni parola pesa quanto un colpo di moschetto. Ogni rima è una cicatrice.


Nel dopoguerra, tra il ’45 e il ’50, l’Italia fa finta di ripulirsi. Ma le poesie restano lì, come proiettili inesplosi. Einaudi ne stampa una raccolta, i Dischi del Sole le trasformano in canzoni, i militanti le leggono come vangeli. Non sono liriche, sono reportage poetici da un mondo che non esiste più ma che continua a mordere. I veri autori restano sconosciuti. Morti. O troppo vivi per mettersi a firmare. Poi arrivano gli anni Settanta. E la Resistenza diventa di nuovo polvere da sparo. Nei centri sociali, nei cortei, nei giornali ciclostilati, le poesie partigiane ritornano. Ma sono cambiate. Adesso gridano dentro le fabbriche, tra i lacrimogeni, nei dischi punk, nelle strofe rap. La lotta non è più contro i fascisti in divisa, ma contro i padroni in giacca e cravatta. E quelle vecchie poesie di montagna diventano ancora armi, tradotte in slang urbano, in linguaggio di strada. Nessuno le studia, ma tutti le cantano. Sotto la retorica, sotto il marmo delle lapidi, c’è ancora la voce sporca e tagliata di chi scriveva per non morire del tutto. Perché se non puoi sparare, almeno puoi scrivere. E se scrivi, sei ancora vivo.
Oggi ne trovi tracce ovunque. In un graffito su un muro, in un verso sputato su un palco, in una pagina sgualcita in una biblioteca che nessuno frequenta più. Non sono poesia civile. Non sono folklore. Sono vene aperte, ancora calde, sotto l’asfalto di questa Repubblica stanca. La Resistenza non è un monumento, non è una ricorrenza. È il sangue che scorre. È il gesto che si ripete ogni volta che qualcuno dice no. Non ha vinto per sempre, ma non ha mai smesso di combattere. E non perderà mai, finché ci sarà qualcuno che sa ancora leggere un verso come si tiene un colpo in canna.

Bici Manifesto: estetica e sottoculture su due ruote
Le muscle bikes degli anni ’60 e ’70 incarnano un fenomeno estetico e culturale radicato nelle periferie urbane americane e britanniche, dove i giovani hanno trasformato la bicicletta in un potente simbolo di ribellione dando vita a un linguaggio visivo che sfida il conformismo.
Modelli iconici come la Schwinn Sting-Ray e la Raleigh Chopper non sono mai stati semplici mezzi di trasporto; più che altro, sono stati incarnazioni di un’attitudine punk ante-litteram, dove proporzioni esagerate, manubri alti “ape hanger” – ovvero quel tipo di manubrio molto alto, con una forma ad “U” rovesciata, che costringe il ciclista (o motociclista) a tenere le braccia sollevate durante la guida – le selle lunghe a banana, le “sissy bar”, termine slang ironico americano degli anni ’60 (in origine “sissy” significa “femminuccia”), riferita alle barre poste dietro alla seduta del passeggero per offrirgli maggior supporto e comfort, i colori saturi che si mescolano per creare un oggetto che parla di status, desiderio di fuga e appartenenza a un sottobosco giovanile definito da storie di marginalità e rottura.
In questa serie che comincia oggi scopriremo figure quali Al Fritz alla Schwinn e Alan Oakley alla Raleigh, i principali artefici industriali di questo movimento. Ma intorno a loro si muoveva un mondo di ragazzi che modificavano le bici nel garage, dando vita a un’estetica collettiva fluida e condivisa.
Pur rimanendo nel periodo degli anni ’60 e ’70, il panorama delle muscle bikes include anche modelli meno noti ma significativi, come le versioni economiche o varianti stilizzate prodotte sia da Schwinn e da Raleigh che da altri marchi minori. Questi modelli, seppur meno iconici, contribuirono a radicare l’estetica muscle bike in una più vasta gamma di ambienti urbani e suburbani, diventando parte integrante delle narrazioni visive di quei decenni.
L’intero movimento si intreccia ad altre esperienze underground: dal glam rock e dalla psichedelia, la cui esuberanza cromatica e scenografica si riflette nella verniciatura e nei dettagli delle bici, al punk emergente, che abbraccia la muscle bike come simbolo di anti-conformismo e rabbia urbana. Le muscle bikes divengono così uno specchio di quei decenni di fermento culturale, dialogando con poster, fanzine, musica e grafica underground. In particolare, la loro estetica performativa e lo spirito DIY si sovrappongono alle sottoculture nascenti del garage rock, delle prime scene punk e del movimento skate, creando un ecosistema estetico e sociale in cui le biciclette sono tanto strumenti di gioco quanto veicoli di identità.

Il fenomeno delle muscle bikes si colloca quindi come un momento cruciale nella storia dell’estetica underground perché – come fatto in precedenza con le auto e le moto – ha trasformato un oggetto ordinario e popolare, in questo caso la bicicletta, in un veicolo carico di significati culturali e sociali che vanno ben oltre la sua funzione pratica. In un’epoca in cui i modelli dominanti di consumo e di design tendevano a un’omologazione rassicurante e funzionale, le muscle bikes incarnavano un’alternativa visiva radicale: erano elementi di rottura, costruiti per farsi notare, per raccontare storie di marginalità e desiderio di differenza.
In questo senso, le muscle bikes rappresentano un esempio di come gli oggetti di uso quotidiano possano essere risignificati all’interno di contesti culturali specifici e diventare autentici manifesti visivi. Le periferie urbane e suburbane degli anni ’60 e ’70, in particolare in America e Inghilterra, erano poli di frustrazione giovanile e disillusione, spazi dove l’accesso a mezzi simbolici di potere come automobili o moto era limitato o proibitivo. La bicicletta, quindi, si trasforma da semplice giocattolo in emblema di appartenenza a comunità alternative: un gesto di contaminazione estetica che sfida la banalità dello spazio urbano e la rigidità dei codici sociali.
Attraverso i loro dettagli esagerati — manubri alti, selle lunghe, cromature vistose, colori sgargianti — le muscle bikes creano un linguaggio visivo immediatamente riconoscibile, che comunica appartenenza a un movimento di minoranza con proprie regole non scritte. Si tratta di “un’estetica performativa”, dove il corpo che si muove sulla bicicletta è parte integrante della comunicazione stessa. Questo fa delle muscle bikes qualcosa di più di un semplice mezzo di trasporto: diventano veri e propri strumenti di espressione individuale e collettiva, capaci di mettere in discussione l’ordine sociale, di raccontare storie di ribellione e costruzione identitaria.

Inoltre, questo fenomeno apre la strada a una concezione del design che si fa politica e pratica culturale underground: la personalizzazione e il bricolage di vari modelli diventano modalità essenziali per riappropriarsi degli oggetti che ci circondano. Le muscle bikes anticipano così i futuri movimenti del design critico in cui non si accetta più passivamente il prodotto industriale, ma lo si rivolta, lo si contamina e lo si fa parlare secondo le esigenze di comunità emarginate o culturali alternative.
In definitiva, le muscle bikes degli anni ’60 e ’70 non sono stati solo giocattoli o mezzi di locomozione, ma catalizzatori di un mutamento estetico e culturale profondo. Hanno ribaltato la percezione di cosa possa essere un oggetto comune, trasformandolo in un simbolo visivo di resistenza culturale e di comunità, segnando un precedente per tutte le forme successive di estetica urbanistica e underground che si sarebbero sviluppate nei decenni a venire.
Detto ciò, preparatevi a scoprire la storia, i protagonisti, gli stili e molto altro, di tre vere e proprie icone del mondo muscle bikes: la la Schwinn Sting-Ray di Al Fritz, la Raleigh Chopper di Alan Oakley e la mitica BMX di Scot Breithaupt.
Il movimento Twee e la rivoluzione che sussurra
C’è stato un tempo — non troppo lontano, ma nemmeno vicinissimo — in cui la rivoluzione non portava giacche di pelle, non spaccava chitarre sul palco per dimostrare d’essere viva. C’era, nascosta tra le pieghe delle magliette a righe, tra le cassette fruscianti registrate in cameretta e le lettere scritte a mano con l’inchiostro che sbavava — una forma di tenerezza che faceva più rumore di mille slogan. Si chiamava Twee. O forse non si chiamava così, ma così la chiamarono, per disprezzo, come si disprezza ciò che non si riesce a controllare. Un vezzeggiativo infantile per sweet, come se la dolcezza fosse un crimine. Una specie di accusa sotto mentite spoglie.
Ma non era solo dolcezza. Era il sapore acido che resta in bocca dopo un bacio troppo lungo. Era la malinconia nel suono stonato di una chitarra giapponese fatta di plastica. Era l’autotutela di chi sa che fuori il mondo ti morde, e allora impari a disegnare animali sui bordi dei quaderni per restare intero. Era — e forse lo è ancora — la risposta più silenziosamente devastante a un tempo che ci voleva duri, vincenti, virili, professionali, rock.
Il Twee non era rock. O forse lo era nel modo in cui solo certe cose delicate riescono a esserlo: con l’ostinazione di chi non si piega, ma non lo grida.
Non era neppure un movimento nel senso classico del termine. Nessun manifesto, nessun proclama, nessuna rivolta annunciata. Solo un costante sottrarsi. Un esistere in minore, fuori scala. Eppure, a guardarci bene dentro, tra quelle chitarre jangly, quei testi che parlano di insicurezza e biciclette, di crush mai consumati, di lettere lasciate a metà, si trova qualcosa di incendiario. Il Twee era il punk del non avere bisogno di sembrare forti. Era la forza della fragilità portata fino al suo estremo, senza filtri, senza cinismo, senza paracadute.
Iniziò con le etichette. Quelle minuscole, invisibili, incollate a mano. Sarah Records a Bristol, K Records nello Stato di Washington. Posti lontani, ma uniti da un filo rosso fatto di cassette, fanzine spedite via posta, dischi stampati in tirature ridicole, concerti nei salotti. C’era gente come The Field Mice, Heavenly, Beat Happening, Tullycraft, Talulah Gosh, Belle and Sebastian — nomi che oggi sembrano usciti da una rubrica sentimentale per adolescenti solitari, ma che allora erano tutto quello che serviva per sapere che non eri solo.
La musica era semplice, quasi infastidita dall’idea di virtuosismo. Non volevano sembrare bravi, volevano sembrare veri. Voci sussurrate, batterie che sembravano giocattoli, chitarre acustiche con corde un po’ allentate. I testi erano diari. Non canzoni, ma confidenze. “Oggi ho pensato a te tutto il giorno”. “Non ho avuto il coraggio di parlarti”. “Quando sorridi sembra tutto meno brutto”. Parole che non erano poesia, ma cura. Antidoti contro l’idiozia spettacolare del mainstream.
Ma la cosa più potente, il cuore incandescente del Twee, batteva nella grafica.
Qui si giocava una partita silenziosa ma feroce, dove ogni copertina era un affronto alla cultura dell’epica visuale. Altro che Photoshop e copertine fighette con font a bastone puliti come sale operatorie. Il Twee era un caos sentimentale e tipografico: foto sfocate di bambini, gatti, biciclette, tazze di tè, disegni tremolanti fatti con la biro, collage di ritagli presi da riviste di giardinaggio anni ’60. Le cover erano lettere d’amore. E spesso lo erano davvero: dietro i dischi c’erano biglietti, messaggi personali, poesie, storie. Come se ogni disco fosse una scatola dei ricordi, un angolo di cameretta da spedire in giro per il mondo.

Twee As Fuck Fanzine, n.1, 2008

Le fanzine erano piene di errori, fotocopiate male, scritte con la macchina da scrivere, piegate con le mani. Nessuno cercava la grafica “pulita”. Nessuno voleva il design. Il layout era anarchico, caotico, emotivo. Tutto era storto. I poster erano come lettere d’invito a una festa dove si sarebbe cantato piano. Nessuna promessa di euforia. Solo la possibilità — rara, preziosa — di stare insieme e sentire qualcosa.
Questo era il Twee. Un luogo. Uno spazio mentale, emotivo, estetico. Ma anche politico.
Perché quando tutto ti spinge a vincere, decidere di perdere con eleganza è un atto radicale. Quando il mondo ti urla di essere produttivo, scegliere di restare a letto a leggere poesie di Frank O’Hara è resistenza. Quando ti dicono che devi lottare per emergere, e tu invece scegli di rimanere in silenzio a suonare per quattro amici, hai fatto la tua rivoluzione.
Era queer anche quando non si diceva. Era femminista anche senza proclami. Era anti-maschile in ogni nota, in ogni disegno, in ogni gesto. Una risposta al testosterone culturale che infestava radio, televisione, giornali. E se tutto questo oggi ci sembra normale — se si può essere fragili, dolci, queer, romantici, disfunzionali eppure pubblici — è anche perché qualcuno, vent’anni fa, ha cantato con voce tremante su una base lo-fi in una stanza piena di peluche.
Il Twee non ha inventato niente da zero. Prendeva dal folk, dalla tradizione pop degli anni Sessanta, dalle canzoni per adolescenti e dalle ballate malinconiche. Prendeva anche dal punk, ma lo faceva con uno sguardo timido, portandosi dietro solo l’essenziale: l’autoproduzione, la libertà, la sfiducia nei meccanismi del mercato. Ha subito le influenze del femminismo, dei diari adolescenziali, della letteratura sentimentale, dei fumetti, della moda vintage. Ma in cambio ha restituito qualcosa di inedito: un’etica visiva della vulnerabilità, un’estetica sonora dell’empatia, una sociologia spontanea delle comunità affettive.
Il suo impatto non si è esaurito nei vinili e nelle cassette. È arrivato nei blog personali, nei film indie americani come Frances Ha (2012) di Noah Baumbach, pieni di conversazioni impacciate e biciclette. Ma anche nella cultura queer, nei dischi bedroom pop di artisti nati vent’anni dopo, nelle nuove forme di condivisione emotiva che si muovono tra Tumblr, Bandcamp e TikTok. Oggi si parla di softboy, di cottagecore, di sad girl, ma sotto sotto, in quei pixel vintage e in quelle canzoni da stanza vuota, c’è ancora il cuore del Twee che batte piano.



E allora, che fine ha fatto? È morto?
No. Non muore mai quello che non si è mai imposto. Vive nei margini. Vive nelle lettere lasciate in fondo a un libro. Nei diari illustrati. Nei festival senza sponsor. Nei sorrisi incerti. In quel momento in cui qualcuno ti guarda e capisci che anche lui — o lei, o loro — si è sentito così: piccolo, fuori luogo, innamorato, vulnerabile. Ma vivo. E fottutamente vero.
Il Twee non è mai stato una moda.
È stato un modo di esistere.
E chi ci è passato dentro lo sa.
Sa che si può resistere anche senza combattere.
Che si può urlare senza alzare la voce.
Che si può cambiare il mondo con una carezza, se fatta bene.
E che c’è più punk in una cartolina scritta a mano, spedita a una persona che ami, di quanto ce ne sia in mille canzoni che vogliono spaccare tutto.


Steve Scott: Hot Rod, fotografia e stampa underground in California
In una Los Angeles che ancora digeriva gli strascichi della Beat Generation e cominciava a esplodere nel tecnicolor lisergico della controcultura anni Sessanta, Steve Scott ha incarnato una traiettoria raramente esplorata nei testi canonici della cultura underground: quella del costruttore di hot rod come artista outsider, come autore di un’estetica propria, marginale eppure potentemente influente. La sua figura, troppo facilmente ridotta a quella del “ragazzo prodigio” dell’automobilismo kustom per via della mitica Uncertain-T, merita una collocazione più ampia e storicamente consapevole all’interno della galassia grafica, editoriale e visuale del movimento underground americano.

Nato e cresciuto a Reseda, un sobborgo operaio della San Fernando Valley, Steve Scott si muove sin da giovanissimo in un perimetro preciso: quello della subcultura motoristica americana postbellica, figlia del boom economico e delle periferie, ma non per questo passiva. Le hot rod, in quel contesto, non erano solo oggetti estetici o mezzi di trasporto: erano medium culturali. Il custom car builder era, di fatto, un autore. E Scott ne ha interpretato il ruolo con una consapevolezza visiva e semiotica precoce.
Non è un caso che il suo primo gesto da autore sia stato quello di osservare, documentare, registrare. Prima ancora di costruire auto, Steve fotografava quelle degli altri. Con una Brownie scattava immagini che diventavano scambi visivi all’interno di un microcosmo suburbano fatto di viali anonimi, vernici metalflake e motori lucidati come sculture. Il passaggio alla fotografia semi-professionale con la Nikkorex F coincide con il momento in cui Scott inizia a pensare a sé stesso non solo come spettatore, ma come narratore. Le fotografie, richieste dagli amici e da altri appassionati, non sono semplici souvenir: sono oggetti semi-autonomi, micro-poster underground che circolano, vengono fotocopiati, incollati nelle camerette, e più tardi pubblicati in riviste specializzate. Ma è la Uncertain-T a consacrarlo come icona. Presentata nel 1965, quest’auto-show car ha rappresentato una discontinuità estetica radicale. Nessuna linea retta, proporzioni surreali, colori esasperati e un’identità ambigua, a metà tra il carro allegorico e la scultura futurista. Il nome stesso — The Uncertain-T — è un gioco concettuale: un riferimento al modello Ford T da cui trae ispirazione, ma anche un’allusione dichiarata all’assenza di stabilità, alla rottura delle norme canoniche del design automobilistico. In questo senso, l’auto non è solo un veicolo, ma un manifesto. La cultura grafica underground, in quegli stessi anni, sperimentava analoghe operazioni concettuali: la fanzine CARtoons, la rivista DRAG Cartoons, o le pubblicazioni minori come Rod & Custom funzionavano tutte come catalizzatori visivi di una cultura che fondeva tecnica, gioco e linguaggio visivo.




Scott non era solo un costruttore: era anche redattore e fotografo per diverse riviste automobilistiche specializzate. Ma ciò che lo distingue è che usava quei media non solo per documentare, ma per scrivere una contro-narrazione dell’estetica americana. Dove Life e Time mostravano Kennedy, suburbia e modernità levigata, le riviste di hot rod presentavano un mondo alternativo, in technicolor saturato, popolato da freaks del carburatore, creature aerografate da Ed “Big Daddy” Roth, e ragazze pin-up dai tratti quasi cartonati. Scott si inserisce perfettamente in questo immaginario, ma con un tocco tutto suo: raffinato, ossessivo, quasi espressionista nella scelta delle linee e nell’uso dello spazio negativo. La sua influenza si misura non tanto con la popolarità — effimera, nel suo caso — ma con la capacità di aver definito un’estetica. La Uncertain-T è stata citata, rifatta, ripensata e fotografata infinite volte. È apparsa in decine di numeri speciali, in mostre, in raccolte fotografiche. Ma ciò che più conta è che ha funzionato come un oggetto visuale aperto: un “meme” ante-litteram che ha scatenato nuove versioni, nuove interpretazioni, nuove rotture delle convenzioni stilistiche. Il suo stile è riconoscibile non solo nell’oggetto-auto, ma nel modo di costruirlo e raccontarlo: Scott progettava “per sottrazione di regola”, lavorando su ciò che non doveva esserci, decostruendo prima con lo sguardo, poi con le mani. Lo si nota nei dettagli assurdi della Uncertain-T — i pneumatici sproporzionati, il tetto tagliato, le cromature che sembrano uscite da un cartoon di Tex Avery — e nel modo in cui li fotografava, non come documentazione, ma come enigma visivo.
Il legame tra Steve Scott e la grafica underground è quindi profondo e reciproco. La sua opera ha alimentato l’immaginario di un’intera generazione di giovani designer, fumettisti e grafici lowbrow che vedevano nell’hot rod una forma di arte applicata. È difficile immaginare i lavori di Robert Williams, ad esempio, o la rivista Juxtapoz, senza il precedente rappresentato da figure come Scott. Il suo modo di concepire il veicolo come linguaggio visivo trova eco nei visual artist contemporanei che trattano oggetti tecnici come forme di semiotica del desiderio. E in fondo, come tutte le figure cruciali della cultura underground, Steve Scott ha lavorato sul bordo: tra arte e meccanica, tra fotografia e progetto, tra cultura pop e gesto artigiano. Non era un designer accademico, né un artista concettuale, ma ha lasciato un’impronta — precisa, rumorosa, cromata — nell’estetica del fuori norma.

LA GRAFICA PUNK la inventa Helen Wellington-Lloyd
Helen Wellington-Lloyd, un nome che immagino non dica niente al lettore, così come il suo enigmatico soprannome, “Helen of Troy”. Eppure, per chiunque si avventuri nelle pieghe meno esplorate della storia della grafica punk, la sua figura emerge come una tessitrice silenziosa, ma essenziale, senza il cui apporto l’intero universo visivo di quella rivoluzione non sarebbe stato lo stesso. Niente di quel linguaggio crudo e diretto, niente volantini assemblati con rabbia e collage, niente di quello stile cut & paste che ancora oggi, con la sua estetica anarchica, continua a catturare l’immaginario di generazioni.
Helen non fu una mera musa, ma una figura enigmatica e cruciale del movimento punk britannico degli anni ’70, la cui fama non si lega a un catalogo tradizionale di opere, bensì al suo ruolo centrale nella scena creativa e ribelle di quel periodo, legandosi indissolubilmente ai Sex Pistols e al loro leggendario, e non meno controverso, manager Malcolm McLaren.
La sua storia inizia lontano, in Sudafrica, ma è nella Londra degli anni ’70 che Helen Wellington-Lloyd trova il suo vero palcoscenico. La capitale britannica era allora un crogiolo di fermenti culturali e controculturali, un epicentro dove movimenti artistici d’avanguardia si mescolavano a correnti di pensiero anticonformiste. Un’atmosfera elettrica, sì, ma anche percorsa da profonde tensioni sociali e politiche: la disoccupazione dilagante, la frustrazione di una gioventù senza prospettive, la crisi economica e l’apatia di un sistema politico percepito come distante e corrotto. In questo humus ribollente, il punk trovò il suo sfogo e Helen Wellington-Lloyd, con la sua presenza scenica e il suo acume visivo, ne divenne un’icona silente ma profondamente influente. La sua celebrità nacque dal suo aspetto bizzarro e inconfondibile, un vero e proprio stile-manifesto. Helen si presentava nei circoli underground di Londra con abiti stravaganti, la testa rasata e spesso decorata con grafiche provocatorie. Uno spirito iconoclasta, volutamente trasgressivo e dissacrante, che incarnava e anticipava uno degli elementi più fondamentali del movimento punk. La sua stessa persona era una performance, un’affermazione visiva di dissenso.


Uno degli aspetti più rilevanti della sua attività fu la stretta collaborazione con Malcolm McLaren e la stilista Vivienne Westwood. Insieme, questo trio alchemico era intento a forgiare l’immagine e il linguaggio visivo dei Sex Pistols, la band che più di ogni altra simboleggiava il punk britannico. McLaren, intuendone il talento innato e la sensibilità per la rottura estetica, coinvolse Helen nella creazione di grafiche, poster e volantini che avrebbero accompagnato e definito l’immagine della band. In particolare, è al suo contributo che si deve la genesi di alcuni dei collage punk più iconici: opere che mescolavano senza timore immagini di propaganda politica, ritagli di giornale apparentemente casuali, lettering irriverente e fotografie sgranate, generando un impatto visivo dirompente.
Il collage, una tecnica che affonda le sue radici profonde nelle avanguardie storiche come il Dadaismo e il Surrealismo, fu ripreso dalla scena punk e reinterpretato in una chiave di ribellione e dissacrazione. La frammentazione visiva, l’accostamento di immagini e testi apparentemente disgiunti, non era casuale; rifletteva, al contrario, l’energia caotica e l’anti-estetica del punk. Helen, con la sua capacità di assemblare e disassemblare, contribuì in modo decisivo a creare questo linguaggio visivo anarchico, la cui eredità è evidente in gran parte della grafica musicale successiva, ben oltre il punk stesso, anticipando tecniche e sensibilità di movimenti come il grunge e l’estetica lo-fi. I suoi collage non erano semplici opere d’arte visiva, ma veri e propri striscioni di protesta contro il sistema, anticipando la comunicazione diretta e senza fronzoli che sarebbe diventata la cifra stilistica del punk. L’immagine celebre della Regina Elisabetta con una spilla da balia al posto della bocca, associata ai Sex Pistols, è un esempio perfetto di questo approccio dissacrante, e sebbene attribuita principalmente al designer Jamie Reid, è innegabile che Helen fosse parte integrante e influenzante di questo processo creativo collettivo.
Helen Wellington-Lloyd era una presenza costante e palpabile nello studio di McLaren e Westwood, il leggendario 430 di King’s Road, la boutique “SEX”, vero e proprio epicentro gravitazionale del punk londinese. Sebbene non avesse una formazione accademica da artista professionista, la sua partecipazione alle discussioni, alle ideazioni di progetti grafici e alla definizione del look dei musicisti fu di importanza capitale. L’immagine e lo stile dei Sex Pistols, tanto quanto la loro musica, hanno incarnato lo spirito più puro del punk, e Helen era tra le figure chiave che alimentavano quella fiamma creativa, con il suo personaggio che fondeva teatro e trasgressione in una performance artistica quotidiana. Si narra del suo ruolo attivo nell’aiutare Malcolm McLaren a costruire il mito dei Sex Pistols: nel promuovere la band o nel creare quelle polemiche ad arte che tanto facevano parlare, Helen era spesso dietro le quinte, contribuendo a ideare poster provocatori e a concepire performance di rottura. Si racconta che abbia avuto un ruolo sostanziale nella creazione di alcune delle prime campagne pubblicitarie dei Sex Pistols, partecipando attivamente ai brainstorming creativi con McLaren, contribuendo con il suo gusto visivo audace e la sua capacità di mescolare arte e cultura popolare con una spiccata tendenza alla sovversione.
Le avanguardie artistiche del XX secolo, in particolare il Dadaismo con il suo spirito iconoclasta e il rifiuto delle convenzioni artistiche tradizionali, ebbero un ruolo importante nella formazione del suo approccio visivo, ma il suo contatto più diretto e viscerale era con l’ambiente di rottura che si stava sviluppando a Londra negli anni ’70. Le sue grafiche punk erano un attacco visivo diretto al decoro borghese e all’autorità, un’estetica che risuonava perfettamente con la rabbia e la disillusione giovanile del tempo. Il collage, con la sua intrinseca capacità di destrutturare e riassemblare i simboli della cultura dominante, diventò per Helen una forma di resistenza estetica primaria, perfettamente in linea con i principi e lo spirito abrasivo del punk. Non si trattava di riproduzione, ma di ricreazione sovversiva.

Malcolm McLaren, con la sua consueta lucidità nel riconoscere le anime più autentiche del movimento, descrisse Helen Wellington-Lloyd come “una musa ribelle, una delle anime più pure del punk”. Il suo ruolo nella creazione dell’immaginario dei Sex Pistols e del punk è stato spesso sottovalutato dalla storiografia mainstream, ma McLaren ne ha sempre riconosciuto l’importanza fondamentale, definendola una delle poche persone capaci di comprendere veramente la natura iconoclastica e rivoluzionaria del movimento. Vivienne Westwood, parlando di Helen, catturò un’altra sfumatura essenziale: “Helen non aveva paura di essere diversa. Era anarchica nell’anima, e questo si vedeva non solo nel modo in cui viveva, ma nel modo in cui contribuiva alla nostra visione”. Helen fu una vera esploratrice della creatività fuori dagli schemi, capace di rompere con le regole del gusto e di forgiare un’estetica radicale che precorreva i tempi.
L’influenza di Helen Wellington-Lloyd si estende ben oltre il suo contributo diretto alla scena punk degli anni ’70. Le sue grafiche, il suo stile personale – che univa una forte identità visiva a un messaggio di rottura – e il suo modo di concepire l’arte come una forma di ribellione attiva e quotidiana, hanno lasciato un’impronta indelebile nella cultura visiva contemporanea. La sua estetica del caos organizzato, del “fatto in casa” provocatorio e del riutilizzo dissacrante continua a risuonare in molti ambiti, dal fashion design (come dimostrato dalle successive collezioni di Westwood) all’arte visiva contemporanea, dalla grafica pubblicitaria all’illustrazione underground, dimostrando come il linguaggio visivo del punk abbia trasformato radicalmente la concezione stessa di arte e design. Il collage, la tecnica che Helen ha abbracciato e reso strumento di contestazione per eccellenza, è un simbolo perfetto del movimento punk: caotico, frammentato, ma al tempo stesso estremamente incisivo e diretto nel suo messaggio. Il punk ha preso gli elementi della cultura dominante e li ha strappati, destrutturati, riassemblati in una nuova forma che sfidava l’autorità e le convenzioni estetiche. Come Helen ha dimostrato con il suo lavoro, l’arte del collage non è solo un’espressione grafica, ma un atto di rivoluzione visiva.
Helen Wellington-Lloyd incarna perfettamente lo spirito più autentico del punk e del collage. In un mondo frammentato e disordinato, ha dimostrato come si possa prendere ciò che è rotto, rimetterlo insieme in modo provocatorio e creare qualcosa di completamente nuovo, qualcosa che, pur nelle sue imperfezioni, urlava una verità. Come disse una volta Vivienne Westwood, in una frase che potrebbe riassumere l’essenza stessa dell’approccio di Helen: “Il punk non ha mai cercato la perfezione, ha cercato la verità”, e Helen, con il suo approccio visivo rivoluzionario, ha saputo catturare e incarnare questa verità con un’intensità ineguagliabile.



Il Cholo Style: tra segno, corpo e rerritorio
Il “Cholo Style” è molto più di una semplice moda; è un sistema estetico complesso, un linguaggio visivo e corporeo stratificato che affonda le sue radici nella storia, nella marginalizzazione e nella resilienza delle comunità Chicano negli Stati Uniti. L’analisi di questo fenomeno non può limitarsi alla superficie dei capi di abbigliamento o dei tatuaggi, ma deve addentrarsi nei meccanismi attraverso cui il cholo style ha dato forma a una vera e propria arte, un’espressione grafica intrinsecamente legata all’identità, al territorio e a una narrazione contro-culturale.
Dalle vie di Los Angeles all’arte sulla pelle e sui muri
Per comprendere appieno il cholo style, è indispensabile contestualizzarlo. Nato nelle comunità messicano-americane della California, in particolare a Los Angeles, a partire dagli anni ’40 e sviluppatosi in modo più riconoscibile dagli anni ’60 e ’70, il fenomeno è indissolubilmente legato alla formazione delle pachucas e dei pachucos. Questi ultimi erano membri di una sottocultura giovanile messicano-americana emersa prevalentemente in California tra gli anni ’30 e ’40. Erano noti per il loro stile distintivo, in particolare gli uomini per gli elaborati zoot suits – abiti ampi con giacche lunghe e pantaloni a vita alta stretti alle caviglie – e le donne per un look altrettanto audace, con acconciature elaborate e trucco marcato. Attraverso questo stile, sfidavano le norme sociali e razziali dell’epoca, affermando un’identità distinta e spesso percepita come minacciosa dalla società dominante. I cholos contemporanei sono in qualche modo eredi di questa linea di resistenza, seppur con evoluzioni e adattazioni significativi. La parola “cholo” stessa, di origine incerta ma spesso usata in senso dispregiativo per indicare persone di sangue misto o indigeno, è stata riappropriata e rivendicata come un simbolo di orgoglio e appartenenza.
Le gangs di Los Angeles, spesso nate come meccanismi di protezione in quartieri poveri e ghettizzati, hanno giocato un ruolo cruciale nella cristallizzazione di questa estetica. In un ambiente dove le opportunità erano scarse e la discriminazione palpabile, il cholo style è emerso come un marcatore di identità, un segnale visivo di appartenenza a un gruppo, ma anche di distinzione e auto-affermazione. Non era (e non è) solo una questione di moda, ma una codificazione semiotica del proprio essere nel mondo.

L’Alfabeto visivo del Cholo style
Il cuore del cholo style, soprattutto per un’analisi che miri ai risvolti grafici e artistici, risiede nella sua meticolosa attenzione ai dettagli e alla personalizzazione. Sebbene esistano archetipi ben definiti, ogni elemento è calibrato per comunicare qualcosa di specifico.
Partiamo dall’abbigliamento. La classica flanella a quadri (spesso chiamata plaid shirt) abbottonata fino al collo, i pantaloni kaki o jeans ampi e stirati con una piega perfetta, le calze tirate su e le sneakers pulitissime (spesso Cortez o Chuck Taylor) non sono scelte casuali. La flanella, per esempio, non è solo un indumento pratico, ma la sua vestibilità ampia permette di celare e al contempo definire la silhouette, mentre i colori e i pattern specifici possono indicare affiliazione o preferenze. I pantaloni ampi, a loro volta, riflettono una certa rilassatezza ma anche una precisione nella piega che denota cura e attenzione. Le sneakers, sempre immacolate, sono un simbolo di status, di pulizia in un contesto che spesso veniva dipinto come sporco e disordinato.
Ma è nel linguaggio grafico che il cholo style rivela la sua vera profondità artistica.
Qui, il corpo stesso diventa una tela, e il territorio un gigantesco libro di appunti.
I tatuaggi sono, senza dubbio, la forma d’arte più intrinseca al cholo style. Non sono semplici decorazioni; sono narrazioni incise sulla pelle, biografie visuali. La tipografia Old English (o Blackletter) è onnipresente, con le sue lettere gotiche che evocano un senso di storia, gravitas e ribellione. Nomi di familiari, date significative, simboli di fede (come croci o l’immagine della Vergine di Guadalupe), frasi che esprimono lealtà, orgoglio o sfida (Sureño, Mi Vida Loca, Born To Die) sono comuni. Ogni linea, ogni sfumatura di nero e grigio (spesso realizzati con un’estetica fine line o single needle) è un atto di auto-definizione. Un aneddoto ben noto tra gli appassionati e gli stessi artisti chicano è quello dei “tatuaggi carcerari”, che sebbene non siano esclusivi del cholo style, hanno avuto un’influenza significativa. Spesso realizzati con mezzi rudimentali (come motori di walkman, penne e inchiostro di china), questi tatuaggi non erano solo un modo per passare il tempo, ma un mezzo per mantenere un’identità e comunicare appartenenza e status all’interno delle gerarchie carcerarie. Questa estetica low-tech ha poi influenzato anche i tatuaggi eseguiti fuori dalle mura.
Oltre alla pelle, i murales e i graffiti sono un’altra espressione grafica fondamentale. I muri dei quartieri chicano sono da decenni tele a cielo aperto per raccontare storie di oppressione, resistenza, celebrazione culturale e memoria. I placas – i tag delle gang o degli individui – sono calligrafie uniche, spesso intricate e stilizzate, che rivendicano il territorio e comunicano un senso di presenza. I murales, invece, sono opere d’arte collettive che spesso raffigurano figure iconiche della storia messicana e chicana (come Emiliano Zapata, Frida Kahlo, César Chávez), scene di vita quotidiana, o allegorie di giustizia sociale. L’estetica grafica di questi murales è ricca di simbolismo, spesso con colori vivaci che contrastano con la monocromia dei tatuaggi, ma condividendo la stessa urgenza narrativa. Un esempio lampante è il famoso Great Wall of Los Angeles, un murale di oltre mezzo miglio di lunghezza che racconta la storia delle minoranze in California, con un’impronta estetica che risuona con molti elementi del cholo style, seppur su una scala monumentale.
Infine, l’estetica automobilistica delle lowriders è un’ulteriore estensione del cholo style nel campo dell’arte grafica e funzionale. Le automobili non sono solo mezzi di trasporto, ma opere d’arte in movimento, personalizzate con verniciature elaborate, spesso in metallizzato o con pinstriping complesso. I murales dipinti sui cofani o sui portelloni delle auto riprendono spesso gli stessi temi dei tatuaggi o dei murales stradali, trasformando il veicolo in un santuario mobile di identità e orgoglio. Le sospensioni idrauliche, che permettono alle auto di “danzare”, sono una forma di espressione performativa che unisce l’estetica visiva al movimento.




Particolarità e assonanze nella storia dell’arte underground
Il cholo style, pur essendo peculiare nella sua origine e sviluppo, presenta sorprendenti assonanze con altri fenomeni associabili all’estetica underground, dimostrando come le sottoculture spesso attingano da un bacino comune di espressioni di resistenza e identità.
Una delle assonanze più evidenti è con la cultura del tatuaggio. La venerazione per il tatuaggio come forma d’arte permanente e come veicolo di narrazione personale è un filo rosso che lega il cholo style alle tradizioni maori, giapponesi (irezumi), e persino alle sottoculture punk o biker. L’uso di simboli e testi sulla pelle è un linguaggio universale.
Un’altra connessione forte è con la cultura hip-hop, in particolare quella della West Coast. Molti elementi del cholo style – l’abbigliamento ampio, l’uso di catene d’oro, la predilezione per specifiche marche di scarpe – sono stati assorbiti e reinterpretati dalla scena hip-hop, creando un’interazione fluida tra le due estetiche. Artisti come Cypress Hill o N.W.A. hanno spesso incorporato immagini e simboli del cholo style nei loro video e nella loro immagine pubblica, contribuendo a diffonderne la visibilità.
Inoltre, l’estetica del cholo style, con la sua enfasi sulla precisione, la pulizia e l’ordine in un contesto spesso percepito come caotico, può essere paragonata ad altre sottoculture che adottano un codice visivo rigido per affermare un senso di controllo e dignità. Pensiamo ad esempio al rigoroso dress code dei Mods inglesi negli anni ’60, che sebbene in un contesto socio-culturale completamente diverso, condividevano la stessa maniacale attenzione ai dettagli e la volontà di distinguersi attraverso lo stile.
Infine, la relazione con la graffiti art e l’arte di strada è innegabile. I placas e i murales chicani sono precursori e parallelismi di molte forme di espressione urbana che oggi sono riconosciute come arte. La stessa urgenza di lasciare un segno, di marcare il territorio e di esprimere una voce dal basso, è una caratteristica condivisa.
Dal margine al mainstream (e Ritorno)
La storia del cholo style è una traiettoria affascinante di evoluzione e adattamento. Dalle sue origini come espressione esclusiva delle comunità chicano, spesso marginalizzate e stigmatizzate, ha lentamente permeato strati più ampi della cultura popolare.
Negli anni ’80 e ’90, l’influenza del cholo style è diventata più evidente grazie alla musica. Il genere gangsta rap della West Coast ha abbracciato e spesso romanticizzato l’estetica cholo, portandola all’attenzione di un pubblico globale. I video musicali mostravano rapper con flanelle, bandane e lowriders, trasformando un simbolo di resistenza locale in un’icona di coolness e ribellione per milioni di giovani.
Con l’avvento di internet e dei social media, il cholo style ha vissuto una nuova fase di esposizione e riappropriazione. Influencer e celebrità, a volte con una comprensione superficiale delle sue radici, hanno adottato elementi del look. Questo ha generato un dibattito acceso sulla cultural appropriation e sulla mercificazione di un’estetica nata dalla sofferenza e dalla lotta.
Tuttavia, è importante notare che, parallelamente a questa mercificazione, il cholo style ha mantenuto la sua autenticità e vitalità nelle comunità da cui è nato. Artisti chicano contemporanei continuano a esplorare e reinterpretare questi codici visivi, spesso con un maggiore intento politico e sociale. La pittura, la scultura, la fotografia e persino il design di moda sono stati influenzati, dimostrando la flessibilità e la capacità del cholo style di evolvere mantenendo la sua essenza. Oggi, ci sono mostre d’arte dedicate all’estetica chicana, libri e documentari che approfondiscono la sua storia e il suo significato, portando il “margine” al centro dell’attenzione critica.
Protagonisti (e) visionari
Il cholo style non è una regione isolata nell’oceano dell’estetica underground, ma un fiume che confluisce e alimenta una corrente più ampia. La sua relazione con la storia dell’arte underground è profonda, incarnando molti dei principi che definiscono questo campo: l’auto-determinazione, la sfida alle narrazioni dominanti, l’uso di mezzi non convenzionali e la creazione di un’arte che nasce dalla vita e dalla strada.
I protagonisti principali di questa sottocultura non sono sempre artisti nel senso accademico del termine, ma spesso individui che, attraverso la loro vita e il loro stile, hanno contribuito a plasmare l’estetica. I tagger, i tatuatori che operavano e operano nelle comunità, i costruttori di lowriders, i writers di murales – questi sono i veri architetti del cholo style. La loro arte è spesso anonima o collettiva, ma il suo impatto è innegabile.
Pensiamo a figure come Mister Cartoon, un tatuatore di Los Angeles di fama mondiale che ha portato l’estetica fineline e chicano style a un pubblico più vasto, lavorando con celebrità e marchi globali, ma mantenendo un profondo rispetto per le sue radici. Le sue intricate grafiche, che mescolano iconografia chicana con elementi di cartoon e di fantasia, sono un esempio di come l’estetica underground possa trascendere i suoi confini originali senza perdere la sua anima.
Oppure, nel campo dei murales, l’influenza di artisti come Judith Baca, curatrice e ideatrice del già citato Great Wall of Los Angeles, mostra come l’arte pubblica possa essere uno strumento potente per rivendicare la storia e l’identità di una comunità. Sebbene non direttamente etichettabile come artista “cholo”, il suo lavoro è intrinsecamente legato alla narrazione visiva delle comunità chicano e condivide con il cholo style la funzione di espressione politica e culturale.
Il cholo style, con la sua enfasi sull’artigianato, sulla personalizzazione e sulla narrazione visiva, si inserisce perfettamente nella tradizione dell’arte self-taught o outsider art. È un’arte che non cerca l’approvazione delle gallerie o delle istituzioni, ma nasce dalla necessità di esprimere e di comunicare all’interno della propria comunità. È un’arte che si manifesta sulla pelle, sui muri, sui veicoli – ovvero sui mezzi disponibili e accessibili a coloro che la creano. Questo la rende intrinsecamente underground: non è prodotta per il mercato, ma per la vita.
In conclusione, il cholo style è un fenomeno estetico di straordinaria ricchezza e complessità. È un linguaggio visivo che trascende la semplice apparenza, diventando un profondo racconto di identità, resistenza e appartenenza. Dalla precisione dei tatuaggi fineline alla monumentalità dei murales, dai segni calligrafici dei placas all’esuberanza delle lowriders, ogni elemento grafico del cholo style è un tassello di un mosaico che narra la storia di una comunità, la sua lotta e la sua inarrestabile creatività. Non è solo un capitolo nella storia dell’estetica underground; è un intero volume, scritto con l’inchiostro della resilienza e disegnato con la penna della ribellione. E, come ogni grande opera d’arte, continua a evolversi, a ispirare e a sfidare le nostre percezioni di ciò che significa essere visti, essere ascoltati e, soprattutto, essere.


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