Una nota di mestizia sottile e acuminata si insinua nel panorama culturale italiano: la notizia odierna della sospensione delle pubblicazioni de Il Vernacoliere non è solo un fatto editoriale, ma il malinconico suggello a un’epoca di satira furente e libertà intellettuale senza compromessi.
Fondato a Livorno nel 1961 da Mario Cardinali, inizialmente come settimanale di controinformazione intitolato Livorno Cronaca, il mensile ha mutato pelle nel 1982 per diventare il titanico monumento di “satira, umorismo e mancanza di rispetto in vernacolo livornese e in italiano” che oggi, dopo oltre sessant’anni, depone le armi di fronte a una stanchezza fisica del suo quasi novantenne direttore e alle implacabili dinamiche della crisi dell’editoria cartacea.

Mario Cardinali

Il Vernacoliere non fu mai una rivista, quanto piuttosto una trincea. Un foglio sferzante, forgiato nella lingua ruvida e verace della costa toscana, capace di travalicare i confini regionali per imporsi come uno dei più vigorosi esempi di stampa underground nel dopoguerra italiano. La sua unicità risiede nella totale assenza di filtri, in una dissacrazione sistematica del “potere” in ogni sua forma – politico, ecclesiastico, militare, economico – eseguita con una chirurgica e volgare onestà intellettuale.
I suoi slogan, spesso ridotti a titoli di locandina di irripetibile efficacia, possedevano la forza primigenia del linguaggio popolare e l’acume critico del pamphlet. La loro capacità di farsi subito “meme”, ancor prima che il termine entrasse nel lessico comune, risiede nella diretta, tellurica rottura di ogni canone dell’odiato politically correct.
Cardinali, una sorta di filosofo livornese prestato alla tipografia, laureato in Scienze Politiche a Pisa, ha sempre difeso la sua creatura con il coraggio tipico di chi sa che la satira, quella vera, è sempre scomoda e mai neutrale.
La rivista ha nutrito generazioni di lettori con rubriche irriverenti e personaggi indimenticabili. Se il direttore stesso ha spesso personificato lo spirito indomito del giornale – si pensi alla sua celebre risposta a Giovanni Toti, che definiva gli over 70 “improduttivi”, con un invito a “trombare di più” – le sue pagine sono state il laboratorio di talenti come Federico Maria Sardelli e una pletora di vignettisti e autori che hanno saputo tradurre in fumetto e testo la critica sociale più feroce.
Il fumetto, in particolare, è stato il veicolo privilegiato di questa rivolta editoriale, con figure come Gualtiero il Puttaniero di Mario D’Imporzano (Dimpo) o il leggendario Troio, che hanno dato corpo a un’umanità sboccata e refrattaria all’ipocrisia borghese.

Gualtiero il Puttaniero

Il Troio
Episodi storici ne hanno scandito la marcia, a testimonianza di una libertà pagata a caro prezzo ma mai barattata: dalle querele per oscenità subite, come quella per l’uso della parola “topa” in una locandina del lontano 1983 – con Cardinali assolto e che difese il termine con superba ironia definendolo una “categoria kantiana” – a sfide più audaci, come il titolo “Madonna Trogolona” riferito alla popstar Madonna, che portò a un’accusa di offesa alla Madre di Dio, anche questa conclusasi con l’assoluzione, ribadendo la sacralità della satira.
In ogni aula di tribunale, Il Vernacoliere non difendeva solo la propria sorte, ma la possibilità stessa, in Italia, di ridere del sacro e del profano con la stessa indifferenza per le gerarchie.
Oggi, l’annuncio della sospensione, mascherato dalla consueta ironia del “nessuno è eterno. Neanche Mario Cardinali”, suona come una resa, non alla critica o al potere, ma alla fatica e ai mutamenti di un mercato che premia l’effimero ma soprattutto si omologa piegandosi al pensiero dominante.
Il Vernacoliere lascia un vuoto incolmabile: è il crepuscolo di una rivista che è stata, a pieno titolo, coscienza sporca e intelletto critico, specchio deformante di un’Italia che, forse, ha smarrito la voglia e la capacità di ridere così aspramente di sé e dei suoi padroni. Un’eredità pesante, quella di un’editoria prevalentemente fumettistica, cruda e geniale, che resta un faro di coraggio per chiunque creda che la vera libertà di stampa risieda nell’assoluta e sfrontata “mancanza di rispetto”.



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