Quando si parla di editoria indipendente lo si fa oramai – spesso nemmeno accorgendosene – tralasciando uno degli aspetti che ne ha fatto la storia sin dalle prime forme risalenti alle pubblicazioni clandestine fino all’editoria underground dei primi decenni del XX Secolo.
Per molti studiosi e protagonisti dell’editoria indipendente – penso a figure quali Primo Moroni, Matteo Guarnaccia, Angelo Quattrocchi, ecc. – uno dei requisiti fondamentali affinché un’editoria indipendente si possa realmente definire tale è l’impegno, se vogliamo dirla meglio e selezionare ancora di più i lettori di questo post allontanandone la maggior parte, è l’impegno politico.
Ovviamente quando utilizzo il termine impegno politico non mi riferisco certo al far parte di un partito o trasformarsi in leader, ma di avere voce in capitolo all’interno dei temi e dei dibattiti contemporanei. Senza citare nuovamente l’inflazionatissimo Gramsci di odio gli indifferenti, è però comunque necessario ribadire cosa significhi, almeno storicamente, il termine indipendente, soprattutto soffermarci un attimo su alcune domande che è indispensabile porci come, per esempio: indipendente da chi? Da cosa? O ancora meglio, indipendente perché?
Indipendente lo si può essere dalla grande distribuzione, dalle sue dinamiche che tendono a stritolare ciò che è piccolo e non “commerciale”.
Indipendente lo si può essere dalla proprietà delle grandi realtà editoriali, soggette alle più concorrenziali – e quindi estreme – regole di mercato che impongono stili, temi, trend oramai caratterizzate dalla troppa velocità e dalla mole di informazioni non più gestibile dal nostro sistema cognitivo.
Indipendenti lo so può essere dal sistema di produzione, per cui le infinite possibilità odierne date dai sempre più semplici, accessibili e performanti strumenti a stampa possono e devono essere sperimentati a prescindere da ciò che il mercato mostra di apprezzare.
Indipendenti, infine, lo si può essere quando definiamo e condividiamo il nostro messaggio in base agli argomenti su cui la società in cui siamo immersi si interroga, si confronta e si divide. Schierarsi, dire la propria, prendere posizione, non è solo una forma diretta e sostanziale di partecipazione civica, non è solo un atto di onestà e trasparenza nei confronti dei proprio lettori, è proprio l’essenza stessa del definirsi indipendenti.
A riprova di questa semplice equazione logica, basti pensare allo scenario tipico di quelle società in cui l’essere indipendenti non è possibile. Ecco, in quei contesti, in quelle società, essere indipendenti non è possibile proprio perché manca del tutto la capacità di esprimere liberamente la proprio visione del mondo, il proprio pensiero su tutti i temi del dibattito pubblico. Più un tema divide, più le visioni sono distanti, e più sono da apprezzare contributi liberi e – appunto – indipendenti. Questo fa paura ai regimi e quindi questo viene impedito solitamente con enormi dispiegamenti di tecnologia e forze repressive. Riportarvi qua esempi di questo tipo di dinamiche ritengo sia del tutto superfluo.
Nella vastissima e incontrollabile produzione delle fanzine, il desiderio – ma mi verrebbe da utilizzare il termine il bisogno – di prendere posizione è spesso già insito nel progetto stesso che si va a realizzare, dimostrazione più recente ne è la vastissima mole di zine a carattere politico prodotte ancora negli ultimi decenni, in particolar modo dalle fasce d’età più giovani sui temi del gender, della crisi ambientale et similia.
Stessa cosa non è riscontrabile invece nella sempre più corposa produzione dei periodici – ovvero gli indie mags – che lentamente ma inesorabilmente si stanno affermando come unico settore dell’editoria cartacea vivo e dinamico, in grado di proporre nuovi titoli, linguaggi ed estetiche.
Salvo casi rari, mi vengono in mente i vari Menelique, Jacobin, e per certi versi l’esperienza di Migrant e poco altro, il magazine indipendente preferisce viaggiare a debita distanza dalle rive perigliose della politica e questa tendenza è riscontrabile più o meno ad ogni latitudine. È bene precisare che non si tratta certo di un atteggiamento originale e specifico degli indie mags, anzi. Laura Pausini che si rifiuta di cantare Bella ciao perché sostiene sia “troppo politica” è infatti solo l’ultima banalizzazione petulante di una fenomeno che oramai appartiene a molti ambiti della nostra società. Musica, cinema, mondo dello sport, nessuno ha più la voglia – possiamo dire il coraggio? – di esprimere un proprio punto di vista su ciò che gli accade intorno ed è evidente quindi quanto lontani siano i tempi di personaggi quali Muhammad Alì oppure, con le dovute proporzioni il nostro Paolo Sollier. Non crediate che siano stati solo pochi avventati a schierarsi o che le evidenti prese di posizione siano state nascoste perché il racconto della storia è ben altro, date per esempio un’occhiata a come si comportò l’attore Gian Maria Volonté con Oreste Scalzone, allora esponente di organizzazioni politiche di sinistra e già fondatore di Potere Operaio e Autonomia Operaia. Come quelle tartarughe che proviamo ad accarezzare, il mondo dei magazine indipendenti sembra impegnato in un costante e immediato ritrarsi non appena il mondo reale prova a toccarli.
Non si hanno idee in merito ai principi temi del dibattito pubblico contemporaneo?
È davvero tutto da considerasi equidistante per il quieto vivere o – peggio ancora – siamo orami tristemente tutti persi in quell’abbraccio senza speranza che Mark Fisher ha definito Realismo Capitalista?
Non si vuole “sporcarsi” il proprio profilo pubblico che deve mantenersi lindo e senza macchia?
Non fa comodo addentrarsi in questi spazi perché sono divisivi, conflittuali, e oggi dal conflitto si rifugge come fosse il male assoluto, su questo non credo vi siano più dubbi. Non a caso si preferisce mantenersi neutrali e non mettere a repentaglio il proprio esercito di followers che potrebbero sentirsi offesi e non in linea di fronte a certe prese di posizione.
Spesso, in momenti di chiacchiere a margine di eventi e discussioni pubbliche, discutendo di quesi argomenti con amici che operano nel mondo dei magazine indipendenti mi è stato detto che la rivista indie di oggi non mira ad abbattere la società come da tradizione della stampa underground. Oramai è chiaro a tutti che non è realistico pensare di sostituire modelli sbagliati di sana pianta e senza gradualità o prospettive a medio e lungo termine. Questa era la visione della tradizionale underground press Pensiamo a questo proposito, e restando nei confini italiani, alle dure battaglie di Re Nudo sulla legalizzazione delle sostanze stupefacenti, sulla chiusura dei manicomi, ai reportage sulle droghe pesanti e sullo sfruttamento sessuale di Frigidaire, alle pubblicazioni di Stampa Alternativa, alle teorizzazioni di Decoder e ai molti altri esempi che potremmo ricordare. Oggi gli indie mags intendono sensibilizzare, reindirizzare e correggere, non cancellare tout court certe storture della comunicazione tramite strumenti giornalistici quali longform e slow news, con la maniacale cura alla grafica e la qualità del prodotto – design is content? – mostrando così che “un altra editoria è possibile”, riprendendo il fortunato claim utilizzato nei primi anni Duemila dal movimento No Global che tanto in anticipo tentò di avvisarci sulla pericolosa parabola intrapresa dalle nostre società.
Nicchie – spesso così vengono descritte – in cui si condivide tutto: dagli interessi al gusto estetico, dal format al taglio editoriale. Niente conflitti insomma, pochi selezionati lettori tutti allineati sulla stessa lunghezza d’onda che ci rende tranquilli, che ci rafforza le convinzioni – vi dicono niente i termini echo chambers, filter bubble, Cherry Picking ? – e che ci mostra segmenti di way of life a cui ci sentiamo sempre più perfettamente aderenti.
Un prodotto quindi che intendiamo come fatto su misura per noi, un po’ come le lattine della Coca Cola con i nostri cantanti preferiti o Nike by You, la piattaforma con cui la nota casa di abbigliamento sportivo di Beaverton ci permette di costruire letteralmente pezzo per pezzo le nostre scarpe, uniche e inimitabili.
Pensate a questo proposito alla scelta effettuata dallo storico magazine di grafica e design Eye magazine per la copertina del numero 94 del 2017 quando, commissionando il lavoro di progettazione allo studio inglese Muir and McNeil, realizzò otto mila copertine differenti per ognuna delle copie messe in vendita. Eccoci dunque giunti alla totale customizzazione del prodotto dove chi acquista gode del piacere libidinoso di possedere un oggetto talmente esclusivo da non avere copie.
Quindi i dubbi che ci ponevamo all’inizio dell’articolo, tornano a fare capolino… è possibile che una rivista che si definisce indipendente non abbia una visione del mondo che fuoriesce dal ristretto ambito del proprio tema editoriale?
E soprattutto, consideriamo utile o no che questa visione venga condivisa con i propri lettori o come spesso ripete chi non si espone mai, “meglio lasciar perdere certe cose, io mi occupo di altro” ?
Non so se davvero esista una risposta corretta a questi interrogativi, ma sono certo che non sia un bene per noi tutti voltarci dall’altra parte e fare finta che non ci sia un generale vuoto di spazi di dibattito, discussione e, perché no, conflitto. Credo anzi che proprio questi spazi possano e debbano essere riempiti anche e soprattutto da chi ha strumenti e idee, competenze e coraggio come chi si avventura nel progetto di pubblicare una rivista e che voglia in questo modo, assaggiare davvero e fino infondo, quel sapore forte e inimitabile dell’essere e comportarsi da indipendente.