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Nel panorama politico del XX e XXI secolo, pochi leader hanno saputo incarnare il proprio tempo con la stessa efficacia di Benito Mussolini e Silvio Berlusconi. Due figure apparentemente distanti per contesto, modalità e scelte ideologiche, ma sorprendentemente affini nel tratteggiare un modello di leadership basato sull’accentramento del potere, sulla manipolazione del consenso e, soprattutto, sull’uso dei media come strumento di costruzione della propria immagine. Se Mussolini fu il primo dittatore dell’era moderna a comprendere il potenziale della propaganda di massa, Berlusconi è stato il grande sperimentatore della politica-spettacolo, anticipando fenomeni oggi sotto gli occhi di tutti, da Donald Trump a Giorgia Meloni, da Javier Milei a Viktor Orbán.
La loro traiettoria, pur diversa nei presupposti e negli esiti, rivela un tratto comune: la creazione di una nuova grammatica del potere, fondata sulla personalizzazione della leadership, sulla capacità di imporre una narrazione dominante e su un rapporto mediatico sempre più diretto con il popolo, a scapito delle istituzioni democratiche tradizionali. Non si tratta di semplici uomini di Stato, ma di veri e propri performer della politica, capaci di ridefinire il proprio ruolo attraverso il controllo dello spazio comunicativo e l’erosione delle strutture intermedie del potere.
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Mussolini: l’inventore del leader moderno
Benito Mussolini fu il primo a comprendere il potenziale politico delle nuove tecnologie di comunicazione di massa. Se il XIX secolo era stato dominato dal parlamentarismo borghese e dalla dialettica dei partiti, il XX secolo aprì le porte a un modello di potere che fece del leader il perno assoluto del sistema. La sua ascesa, dall’eversione squadrista fino alla marcia su Roma del 1922, segnò il passaggio da una democrazia fragile a una dittatura che si presentava come modernizzatrice e dinamica.
Non è un caso che Mussolini stesso si definisse l’uomo della Provvidenza, un’autocelebrazione che trovò nel cinema, nella radio e nei giornali il proprio canale privilegiato. Il fascismo non governava solo attraverso la violenza e la repressione, ma tramite un sofisticato apparato di narrazione: Mussolini veniva rappresentato come il Duce, il condottiero infaticabile, l’uomo che parlava direttamente al popolo senza la mediazione delle élite corrotte.
L’Istituto Luce, fondato nel 1924, fu il primo laboratorio mediatico del Novecento, un’antesignana della propaganda totalitaria che avrebbe trovato nel Terzo Reich e nell’Unione Sovietica di Stalin ulteriori sviluppi. Le immagini del Duce intento a mietere il grano, a forgiare il ferro nelle officine o a sciare sulle Dolomiti non erano semplici documenti, ma un’operazione studiata per costruire un mito: Mussolini non era un politico nel senso tradizionale, ma un’icona, il fabbro della nuova Italia.
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Come scrive Emilio Gentile:
“Il fascismo fu il primo regime totalitario a comprendere che il potere non si impone solo con la coercizione, ma con il consenso diffuso, e che quest’ultimo si costruisce attraverso un controllo capillare della cultura, dell’educazione e della comunicazione di massa.”[1]
Ma l’aspetto forse più innovativo del mussolinismo fu l’anticipazione di una politica sempre più visiva. I suoi discorsi erano eventi spettacolari, vere e proprie messe laiche dove il capo si presentava come l’incarnazione vivente della nazione. Non è azzardato dire che Mussolini sia stato il primo influencer politico della storia.
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Berlusconi: il grande trasformista della Seconda Repubblica
Se Mussolini inaugurò la politica mediatica, Silvio Berlusconi ne fu il massimo interprete nella stagione postmoderna. La sua parabola, iniziata con il monopolio televisivo e proseguita con la creazione di Forza Italia nel 1994, si basa su una premessa analoga: il superamento della politica tradizionale attraverso un rapporto diretto tra leader e popolo, mediato da strumenti di comunicazione di massa.
Berlusconi non prese il potere con una marcia su Roma, ma con una scalata mediatica senza precedenti. Le sue televisioni, nate negli anni ’80, non furono semplici aziende, ma il laboratorio di un nuovo linguaggio: il messaggio politico diventava intrattenimento, il dibattito si riduceva a slogan, la complessità era sostituita dalla narrazione semplificata di un’Italia divisa tra buoni e cattivi. In questo senso, il Cavaliere fu un autentico precursore della post-verità.
Nel suo stile, la politica non era più un’arena di scontro ideologico, ma un grande reality show, dove il leader si presentava come un uomo comune, amico del popolo, vittima delle élite e dei magistrati. Esattamente come Mussolini, anche Berlusconi fece del corpo e della sua immagine un veicolo politico: l’abbronzatura perenne, i trapianti di capelli, il sorriso scolpito diventarono parte integrante del suo brand.
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Come osserva Marco Belpoliti:
“Berlusconi è il primo leader politico a comprendere che, nell’epoca televisiva, la forma è sostanza. La sua identità è in continuo mutamento, come un personaggio di fiction che si adatta al pubblico di stagione in stagione.”[2]
Ma Berlusconi non fu solo un prodotto mediatico: il suo successo segnò l’inizio di una stagione in cui la politica si svincolò dalle mediazioni istituzionali per diventare sempre più spettacolo. Senza di lui, probabilmente, non avremmo avuto Trump, Orbán o Bolsonaro: leader che, come lui, hanno costruito la propria forza sul mito dell’uomo solo al comando, in lotta contro il sistema.
Dalla propaganda al populismo digitale
Se Mussolini fu il profeta del totalitarismo mediatico e Berlusconi il grande regista della politica-spettacolo, oggi assistiamo all’ultima evoluzione di questo fenomeno: il populismo digitale. La personalizzazione della leadership si è ulteriormente radicalizzata, con leader che comunicano direttamente via social, senza alcuna intermediazione istituzionale o giornalistica.
Ciò che cambia, rispetto ai loro predecessori, è che la propaganda non è più monopolio dello Stato o delle televisioni private, ma si diffonde in modo capillare attraverso il web. Mussolini parlava dal balcone di Piazza Venezia, Berlusconi dai suoi studi televisivi, mentre Trump twitta, Milei posta meme e Meloni realizza dirette su TikTok.
In definitiva, la lezione che ci lasciano Mussolini e Berlusconi è che il potere si evolve, ma le sue dinamiche profonde restano sorprendentemente simili: si vince costruendo un nemico, si governa accentrando il controllo dei media, si domina trasformando la politica in un grande spettacolo. La storia, come diceva Marx, si ripete: prima come tragedia, poi come farsa. E noi, nel dubbio, continuiamo a guardarla in diretta.
[1]: Emilio Gentile, Fascismo. Storia e interpretazione, Roma-Bari, Laterza, 2002, p. 67.
[2]: Marco Belpoliti, Il corpo del capo, Torino, Guanda, 2009, p. 145.
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