C’è una foto leggendaria: Bruce Meyers, torso nudo, capelli scompigliati dal vento del Pacifico, seduto sul suo Manx Dune Buggy, la sabbia che schizza ovunque, mentre dietro di lui si spalanca la California psichedelica degli anni Sessanta. Non è una pubblicità, è vita vera. E quella foto, come tutto ciò che ha creato, non è solo un’icona estetica — è una dichiarazione di guerra al mondo ordinato, laccato e prefabbricato.

Bruce Meyers è stato uno di quei rari freak che hanno trasformato l’invenzione in cultura pop senza chiedere permesso a nessuno. Ex marine, surfista zen e artista della resina, si mette in testa di costruire una macchina da deserto partendo da una Volkswagen Beetle e ci riesce. Nasce così il Meyers Manx, un fottuto mostro da sabbia in fibra di vetro, leggero come una tavola da surf e agile come un ghepardo su LSD. Era il 1964, e senza volerlo stava per ridefinire l’estetica della libertà americana. Ma qui non si parla solo di motori o sabbia: il linguaggio visuale del Manx — forme tonde, colori psichedelici, proporzioni caricaturali da cartoon underground — era puro pop art su ruote. Sembrava uscito da una tavola di Rick Griffin o da un poster di Ed Roth. Non era solo un mezzo: era un manifesto grafico in movimento, una controcultura mobile con quattro ruote e una risata sfrontata contro lo stile industriale e borghese delle muscle car tutte cromo e testosterone.



Bruce, che veniva dal mondo del surf artigianale, trattava la vetroresina come un medium artistico: scolpiva carrozzerie come si modella l’argilla. Ogni curva del Manx gridava handmade, anti-sistema, fuck you al Fordismo. E in quel processo c’era una radicale estetica della personalizzazione, molto più punk di quanto la gente ammetta. Oggi, nel culto globale del customizing, dalle bici fixed ai synth modulari, l’impronta visiva di Meyers si sente ancora: colori saturi, linee rotonde, spirito DIY. Meyers non era un teorico — era un poeta della sabbia e delle mani sporche, un hacker meccanico con l’estetica di un surfista acid drop. Il suo impatto sulla grafica underground è sottovalutato, ma reale. I buggy che sfrecciavano nei deserti americani erano manifesti mobili, serigrafie su quattro ruote, un’estensione visiva di una cultura fatta di adesivi, lettering slab, pinstriping psichedelico e decalcomanie sfacciate. In un mondo sempre più chiuso in algoritmi e linee dritte, il design morbido, bulboso e coloratissimo di Bruce Meyers esplode ancora come una granata vintage. Non era solo un tipo che costruiva dune buggies — era un artista che rideva in faccia alla standardizzazione. Ecco perché Bruce non ha mai costruito solo veicoli. Ha costruito mondi. E li ha lasciati liberi di correre sulla sabbia, senza mai guardarsi indietro.