L’arte di Pierre Schmidt, noto con lo pseudonimo di Drømsjel, si muove in un territorio liminale tra il surreale e il perturbante, fondendo il collage digitale con l’illustrazione in una poetica che richiama il sogno, la dissoluzione dell’identità e l’evanescenza della memoria. Le sue figure, spesso composte da volti eleganti lacerati da fioriture organiche o dissolti in architetture impossibili, sembrano esistere in uno spazio sospeso, dove il confine tra corpo e paesaggio si sfalda in un continuo processo di metamorfosi. L’influenza del surrealismo è evidente, ma non si tratta di una semplice ripresa nostalgica: se Max Ernst e Salvador Dalí esploravano l’inconscio attraverso il gesto pittorico o il collage analogico, Schmidt porta questa ricerca nel dominio digitale, ibridando la delicatezza del disegno a mano con la precisione dell’elaborazione computerizzata. Il risultato è un’estetica che evoca il passato, ma che si inscrive pienamente nella sensibilità contemporanea.



Uno degli aspetti più affascinanti del suo lavoro è la decostruzione dell’identità attraverso il frammento. I volti nei suoi collage non sono mai integri: vengono spezzati, aperti, invasi da elementi naturali o architettonici che sembrano sostituire la coscienza con paesaggi interiori. Questa pratica richiama le riflessioni di Jacques Lacan sullo stadio dello specchio, quel momento in cui il soggetto si riconosce in un’immagine esterna, ma al contempo ne avverte la separazione, generando una frattura tra il sé e la sua rappresentazione. Schmidt traduce visivamente questo sdoppiamento, creando opere in cui il volto umano si fa instabile, attraversato da vuoti e sovrapposizioni, come se l’identità fosse un palinsesto in continua riscrittura.



Questa dissoluzione del soggetto trova un parallelo anche nella filosofia di Gilles Deleuze e Félix Guattari, in particolare nel concetto di corpo senza organi, inteso come uno stato di flusso in cui le strutture gerarchiche del corpo e della psiche si destrutturano, lasciando emergere nuove possibilità di esistenza. I volti di Schmidt non sono ritratti tradizionali, ma campi di forze in trasformazione, attraversati da elementi estranei che li ridefiniscono continuamente.

A livello estetico, il lavoro di Schmidt si inserisce in una lunga tradizione di artisti che hanno utilizzato il collage come strumento di indagine sulla frammentazione dell’esperienza. La sua affinità con la photo-manipulation digitale lo avvicina alle sperimentazioni di artisti contemporanei come Jesse Draxler, ma le atmosfere rarefatte delle sue opere ricordano anche le illustrazioni surreali di Wojciech Siudmak o le visioni oniriche di Alessandro Bavari. Tuttavia, mentre il surrealismo storico cercava di esplorare il subconscio attraverso immagini derivate dall’automatismo e dall’accostamento incongruo, Schmidt lavora in una direzione più controllata e intellettuale, costruendo narrazioni visive in cui ogni frammento sembra possedere un significato latente, pronto a essere decifrato dallo spettatore.



Il suo metodo di lavoro, basato sulla stratificazione e sulla manipolazione digitale di immagini preesistenti, lo collega anche alla tradizione del sampling visivo tipica della cultura contemporanea, in cui il riuso e la ricombinazione diventano strumenti per generare nuovi significati. Come nel remix musicale, ogni frammento mantiene un’eco del suo contesto originario, ma viene riplasmato in una nuova configurazione, dando vita a una poetica della contaminazione che si riflette nella fluidità stessa della sua estetica.

Se il surrealismo cercava di portare alla luce l’irrazionale nascosto sotto la superficie del reale, Schmidt sembra suggerire che questa superficie sia già di per sé instabile, porosa, attraversata da forze che ne alterano continuamente la forma. Le sue opere non raccontano semplicemente sogni, ma mettono in scena il processo stesso del sognare, con i suoi slittamenti, le sue dissolvenze e le sue epifanie improvvise. Il suo lavoro, in questo senso, non è solo un tributo al passato, ma una riflessione sulla natura stessa dell’immagine nell’epoca digitale, in cui ogni volto è al tempo stesso una maschera e un enigma, una promessa di riconoscimento e un invito a perdersi nell’infinita molteplicità del possibile.