Il punto di partenza necessario per poter seguire questo articolo, le poche notizie di cui il lettore deve disporre per comprendere il mio (breve e semplice) pensiero, scaturiscono da una puntata della trasmissione televisiva Report di domenica 27 ottobre 2024. Ma di cosa si tratta? E, soprattutto, dove voglio andare a parare? Prendetevi cinque minuti del vostro tempo…

Lo scandalo è il furto, non la candela!

Come riporta il sito di RaiNews: “E’stata chiusa l’inchiesta della procura di Macerata sulla vicenda del quadro del pittore del Seicento senese Rutilio Manetti dal titolo La cattura di San Pietro che vede indagato l’ex sotto segretario alla Cultura Vittorio Sgarbi. Lo scrive il Fatto quotidiano, secondo cui Sgarbi sarebbe imputato per riciclaggio, auto riciclaggio e contraffazione di opere d’arte e rischierebbe per questo una condanna da 4 a 12 anni di carcere”.
A dare il via all’indagine giudiziaria è stata proprio un’inchiesta giornalistica del quotidiano e di Report sulla tela rubata nel 2013 da un Castello di Buriasco  e che poi sarebbe riapparsa del tutto identica nove anni dopo a Lucca nella Mostra  I pittori della luce curata proprio da Sgarbi, come opera di sua proprietà, salvo il dettaglio di una torcia in alto a sinistra. 


La cattura di San Pietro, Rutilio Manetti, tra XVI e XVII secolo
(a sinistra la versione originale, a destra quella manomessa)

Secondo il quotidiano, nelle conclusioni dei pm sarebbe stata decisiva la perizia sul quadro fatta eseguire dalla procura sulla tela che Sgarbi sostiene aver trovato così com’è nella soffitta della sua villa in provincia di Viterbo. Perizia che avrebbe concluso che il dipinto in possesso del critico e da gennaio sotto sequestro “sia lo stesso provento di furto e oggetto di denuncia il 14 febbraio 2013”. E a carico di Sgarbi peserebbe anche la confessione di quello che ancora il Fatto quotidiano definisce il “pittore-falsario” Pasquale Frongia, che con gli inquirenti avrebbe ammesso: “la torcia nell’originale non c’era, fu lui a chiedermi di aggiungerla”.
Ma davvero il “reato” di Sgarbi è cosa così grave? Siamo certi che sia normale scandalizzarci di fronte ad una palese “manomissione” di un’opera d’arte da parte di un altro artista? Possiamo infine decretare che, a fronte di una chiara modifica del “senso originario” dell’opera – sempre che sia corretto definirla così – sia pacifico urlare allo scandalo? Dal mio punto di vista le risposte a questi quesiti sono tutte affermative, ma – ed è qui che nasce l’idea del mio scritto – aprono interessanti spazi di analisi sul concetto della “manipolazione” e, più in generale, del concetto di “finito”.
Ma vediamo di spiegarmi meglio…

La Stratificazione Simbolica:
Il Murale come Opera Aperta

Prova adesso, caro lettore, a spostare la tua attenzione dalla cattura di San Pietro all’arte di strada, in particolare ai murales e ai graffiti che ci appaiono frequentemente lungo i muri, le pareti, i vagoni dei treni e molto altro. In questo caso si tratta di una forma d’arte affascinante perché, per usare le parole di Armando Petrucci, “fornisce al pubblico non già (solo) un messaggio verbo-visivo, ma un impulso, una provocazione, uno shock” (La scrittura. ideologia e rappresentazione; 2021).
Queste opere sono infatti esposte negli spazi pubblici e quindi soggette a vere e proprie risposte da parte di chiunque lo voglia: siano essi altri artisti, passanti o anche di individui con intenzioni provocatorie o censorie. I murales, in questo senso, incarnano un dialogo collettivo e dinamico, una stratificazione simbolica dove ogni aggiunta modifica e arricchisce il significato originale, dando vita a un’opera che non è mai realmente conclusa.
Questo processo – che potremmo definire performativo – di aggiunta continua, attraverso scritte, adesivi, disegni o elementi visivi che si sovrappongono alla creazione originale, va ben oltre l’idea di completamento in quanto abbraccia piuttosto una filosofia del non finito, trasformando l’opera d’arte in un’esperienza aperta e in divenire. Ogni nuova traccia, ogni intervento, ogni “manipolazione”, non è dunque una semplice aggiunta, ma un gesto prevedibile, addirittura in qualche modo “atteso”, che ridefinisce di volta in volta il significato stesso del murale, come in un palinsesto che si riscrive e si rinnova nel tempo. L’arte di strada si rivela così uno dei modi più autentici e dinamici per rappresentare una filosofia di trasformazione continua, resa visibile attraverso la materia stessa.

Il concetto di Opera Aperta
e di Autorialità Fluida

Il murale, essendo esposto alla vista di tutti, sfida dunque la concezione tradizionale dell’autorialità. L’autore del murale originale non è più l’unico responsabile del suo significato, ma accoglie inconsapevolmente e tacitamente la collaborazione e l’intervento di altri, trasformando il concetto stesso di opera finita o, per dirla con le parole di Umberto Eco, di opera chiusa.
La teoria dell’opera aperta, formulata dal grande semiologo di Alessandria, rimanda al concetto di opera d’arte che si fa viva solo attraverso l’interazione continua con il pubblico, che si appropria dell’opera e contribuisce a darle significato. In questo senso, i murales e i graffiti diventano emblemi perfetti dell’opera aperta, dove il significato non è mai fissato, ma fluisce e si rinnova attraverso ogni interazione.

Ogni atto di comunicazione è un processo di assemblaggio, di collage, dove ogni significato è il risultato di una giustapposizione di frammenti, che noi stessi organizziamo in modo da dar loro un senso.

Umberto Eco, Il limite dell’interpretazione 1990).

Questa visione fluida dell’autorialità rappresenta un elemento centrale della stratificazione simbolica, e l’arte di strada diventa in questo un laboratorio in cui l’opera non è mai chiusa, ma sempre pronta ad accogliere il nuovo. Ogni nuovo graffito o disegno, pur modificando il lavoro originale, non lo distrugge ma lo arricchisce, creando un tessuto narrativo in cui il passato e il presente convivono

Il Concetto di Non Finito in Balzac
e la Poetica dell’Incompiuto

Per comprendere fino in fondo il senso filosofico di questa stratificazione, è essenziale esplorare il concetto di non finito. Questo principio descrive la volontà di un’opera di rimanere aperta, in modo che ogni aggiunta non la renda mai definitiva, ma ne alimenti la vitalità e la capacità di accogliere nuovi significati. Uno dei testi che meglio incarnano questa idea è Il capolavoro sconosciuto di Honoré de Balzac, racconto pubblicato nel 1831. Qui, Balzac narra la storia di Frenhofer, un pittore ossessionato dall’idea di creare un’opera perfetta, tanto che il dipinto su cui lavora sembra sfuggire sempre più alla sua capacità di controllo. L’opera, destinata a rappresentare la bellezza assoluta, appare però agli occhi degli altri come una confusa massa di colori e linee, un caos incomprensibile.

Un’opera non è mai veramente finita, ma abbandonata.

Il capolavoro sconosciuto, Honoré de Balzac

Questo ideale di non finito si manifesta nelle forme più viscerali dell’arte di strada, dove il murale, come il dipinto di Frenhofer, non raggiunge mai un compimento definitivo, ma rimane sempre un work in progress, suscettibile di nuove aggiunte e reinterpretazioni. Come l’opera di Balzac, ogni murale racconta un dialogo tra l’intenzione originale e i nuovi significati che vi si innestano. Il non finito, in questo caso, diventa una forma di espressione dell’arte contemporanea che accoglie l’incompletezza non come limite, ma come fonte di possibilità.

Gli artisti del non finito
e la Poetica del Frammento

Anche Michelangelo è noto per il suo uso del non finito nelle celebri sculture dei Prigioni, figure scolpite che sembrano voler emergere dal marmo senza mai riuscire a liberarsene completamente. Queste opere incarnano la lotta dell’artista con la materia e l’impossibilità di raggiungere una forma assoluta. Michelangelo, lasciando incompiuti questi lavori, rende visibile l’intenzione creativa come un percorso piuttosto che un risultato, suggerendo che l’arte è un processo di continua scoperta e svelamento.


Prigioni, Michelangelo, 1513 circa

Anche Friedrich Nietzsche concepisce il non finito come parte essenziale del pensiero umano. Secondo Nietzsche, la verità non è mai un insieme compiuto, ma una pluralità di prospettive in perpetua evoluzione. Questa visione si riflette nell’arte di strada, dove ogni intervento aggiunge una nuova prospettiva, un frammento che arricchisce il murale, senza mai esaurire il suo significato.
Proprio come il dipinto incompiuto di Frenhofer, le sculture dei Prigioni, i murales o la maggior parte delle opere di Leonardo Da Vinci sfidano la nozione tradizionale di autorialità e di perfezione, diventando simboli di una verità in divenire, che si nutre delle esperienze e delle interpretazioni di chiunque vi interagisca. Ogni intervento aggiunge un pezzo alla storia, lasciando il murale aperto a nuove interpretazioni e significati. Ma c’è di più… L’incompiutezza pone l’ambiguità sul non finito.

Cosa ci farebbe oggi un Leonardo da Vinci, un incompleto, incapace di specializzarsi o di finire un’opera o di renderla pratica e fruibile?
Già nel suo tempo Leonardo era considerato un inadatto, un uomo incompiuto, uno che si disperdeva in mille interessi, molti dei quali non trovavano conclusione o
completezza. Più un uomo del medioevo che della modernità.

Il capolavoro sconosciuto e la potenza del non finito, Alfonso Maurizio Iacono

Il problema di Leonardo fu il medesimo dubbio di Karl Marx e di Paul Cézanne. L’elaborazione in loro eccede l’esecuzione. Leonardo progetta senza realizzare, Marx scrive almeno il triplo di ciò
che consegna alle stampe, Cézanne ritorna più di sessanta volta sulla Montagna SainteVictoire astrattificandola ma senza mai concluderla. Cézanne come Leonardo non vuole imitare i pittori, ma interpretare la natura.


Mont Sainte-Victoire, Paul Cézanne, tra il 1902 e il 1906

Sempre Iacono a tal proposito scrive ancora:

Cézanne comprese che la conoscenza ha bisogno dell’intreccio fra esattezza e fantasia e che quando l’elaborazione eccede l’esecuzione, il non finito non esprime incompiutezza bensì il dramma della conoscenza umana che mentre cerca l’infinito al di fuori di sé, lo trova dentro di sé, nella propria mente, nell’immaginazione, nel proprio fingere, se per fingere intendiamo ciò che questa parola effettivamente significa: plasmare, formare, darsi quei contorni che ti fanno pensare a un altrove, come una mappa che non è il territorio, come il quadro che non è il paesaggio, come gli spazi di là dalla siepe in cui il pensiero dolcemente annega. Frenhofer è questo.

Il capolavoro sconosciuto e la potenza del non finito, Alfonso Maurizio Iacono

In questo contesto, il non finito diventa la caratteristica distintiva della stratificazione simbolica, in cui ogni nuova aggiunta porta con sé un contributo, una critica, una reinterpretazione. Non si tratta di vandalismo, ma di un processo artistico e filosofico che rende il murale qualcosa di vivo e sempre pronto a evolvere, un’opera che, come il dipinto di Frenhofer, non mira a una perfezione statica ma a una continua trasformazione.
Il concetto di non finito, invita a riflettere sulla bellezza che risiede nel processo di creazione continua. Ogni opera che si stratifica sui muri delle città, ma non solo, i testi di Marx, gli orizzonti di Cézanne, i progetti di leonardo, e quanto potremmo scrivere ancora, non rappresentano solo un’opera d’arte, ma una provocazione alla partecipazione, un invito a lasciare una propria traccia e a reinterpretare ciò che è stato fatto prima. Soprattutto rappresentano un’indicazione circa l’assumere centralità del processo creativo a discapito dell’opera finita.

Esso è propriamente non finito nel senso di incompiuto, di non ancora finito (anche se mai sarà finito) oppure è non finito nel senso di un drammatico, impossibile equilibrio tra finito e infinito, reso paradossalmente possibile proprio del suo essere non finito? Se accettiamo il passaggio dall’elaborazione all’esecuzione come modernamente necessario nell’epoca della precisione e dell’alta definizione, allora il non finito è l’annuncio incompiuto, ovvero un fallimento; se invece pensiamo che sia l’elaborazione l’oggetto dell’esecuzione stessa, allora il non finito è l’entrata in una nuova conoscenza.

Il capolavoro sconosciuto e la potenza del non finito, Alfonso Maurizio Iacono

In conclusione, tornando a dove sono partito, il dubbio che mi è balenato in testa al termine della puntata di Report è il seguente: “Adesso che Pasquale Frongia ha modificato con l’aggiunta della candela il quadro di Rutilio Manetti La cattura di San Pietro, cosa dobbiamo fare?
Riportarlo alla sua estetica – e significato – originari perdendo per sempre lo strato di significazione introdotto dal Frongia? Oppure mantenere tale “manomissione” in quanto parte integrante della storia dell’opera che altrimenti perderebbe un pezzo che, che ci piaccia o no, è oramai entrato a far parte di essa?
Se ogni opera, ogni vita, ogni storia è destinata a restare incompiuta e se diamo per buono che è proprio in questa incompiutezza, in questo dialogo senza fine, che l’arte trova il suo significato più profondo e la sua più grande bellezza, la risposta viene da sé.