Viviamo un tempo che si presenta con i tratti di una schizofrenia collettiva. Da un lato, la storia accelera con una violenza senza precedenti: guerre in diretta, crolli ambientali annunciati, disordini sociali, crisi democratiche, rivoluzioni tecnologiche che sembrano scritte da Philip K. Dick. Dall’altro lato, la percezione quotidiana che ne abbiamo appare spaventosamente piatta, anestetizzata. Ogni evento viene incasellato, narrato, spiegato, consumato. Poi dimenticato. È come se un filtro invisibile si fosse frapposto tra il reale e la nostra capacità di sentirlo, pensarci dentro. Ed è qui che HyperNormalisation – concetto, documentario, diagnosi – si rivela più attuale che mai.

Adam Curtis, con il suo stile ipnotico e oracolare, ci aveva avvertiti già nel 2016: le nostre società non vivono più nel reale, ma in una simulazione stabile e rassicurante di esso. Questa finzione non è un errore o un complotto: è una strategia di sopravvivenza. Una strategia messa in atto da istituzioni, media, persino cittadini, per evitare di affrontare la complessità ingestibile del presente. La chiamava “ipernormalizzazione”: un mondo in cui tutti sanno che la narrazione dominante è falsa, ma nessuno riesce a immaginarne una alternativa. La realtà finta diventa più sopportabile di quella vera.

Il ritorno dell’irreale in un tempo catastrofico

Prendiamo il 2024-2025, con il suo susseguirsi frenetico di shock: l’intelligenza artificiale che riscrive i fondamenti della comunicazione e del lavoro; le guerre asimmetriche dove verità e propaganda sono indistinguibili; l’informazione sempre più simile a una corrente senza fondo, dove tutto si equivale, e quindi tutto si annulla. È la tempesta perfetta. Eppure, la sensazione dominante è quella di una stabilità grottesca, come in un plastico televisivo dove le rovine sono soltanto scenografia.

Siamo di fronte a un mondo che brucia — letteralmente e metaforicamente — mentre scrolliamo i feed dei social. L’orrore, il collasso, la rivoluzione sono diventati oggetti estetici, packaging di contenuti, snippets. Non vengono negati. Al contrario, vengono esposti continuamente, ma in un modo che li svuota della loro forza trasformativa. È la logica della overexposure: far vedere tutto per non far sentire nulla. È l’estensione logica del “tutti fingevano di crederci” dell’URSS tardiva, solo che oggi non serve neanche fingere: basta condividere.



Jonathan Zawada – Over Time

Il potere ha smesso di promettere: ora organizza il disorientamento

Nel vocabolario del potere contemporaneo, poche parole sono più rivelatrici di quelle che nascono ai margini — nei sussurri, nei ripostigli del linguaggio ufficiale. “HyperNormalisation” è una di queste. A coniarla, non è stato un sociologo occidentale, né un opinionista. Il termine compare per la prima volta nelle ricerche di Alexei Yurchak, antropologo russo, che studiò la quotidianità dell’Unione Sovietica negli anni Settanta e Ottanta, quel periodo lungo, stagnante, apparentemente immobile che precedette il collasso del sistema. Yurchak osservava un paradosso: tutti sapevano che l’ideologia ufficiale era vuota, che le strutture erano marce, che il sogno socialista si era logorato fino a diventare farsa. Eppure, tutti continuavano a comportarsi come se nulla fosse. Si viveva dentro una rappresentazione, senza più crederci, ma senza possibilità di uscirne. Quella che nasceva era una forma perversa di “normalità ipertrofica”, imposta dall’abitudine e dalla paura del vuoto.

Il concetto si è rivelato profetico, più che storico. Trasposto nel presente, descrive con precisione chirurgica il nostro modo di abitare una realtà che ha perso i propri riferimenti stabili. Anche oggi viviamo dentro una coreografia apparentemente razionale: i mercati si muovono, le elezioni si tengono, le notizie scorrono. Ma sotto la superficie, tutto è instabile. Questa notte, ad esempio, gli Stati Uniti hanno bombardato obiettivi a Teheran — un’azione dirompente, potenzialmente gravissima. Eppure, la notizia scivola tra un aggiornamento su una nuova app e un reel virale. Il mondo reale pulsa di violenza, di disordine, ma la percezione collettiva resta ovattata. Come in URSS, non si tratta di censura, ma di saturazione. Il dramma è che ci siamo abituati al dramma. Il collasso è previsto. La guerra è un elemento del paesaggio.


Jonathan Zawada – Over Time

«So perfettamente che le cose che dico, in questo momento, le dicono anche altri. Ma esse vengono dette con una sorta di complicità col potere, che è il segno della generale accettazione della nuova forma di vita imposta dal potere stesso. Tutti sanno che quello che dico è vero: ma lo dicono come se fosse falso.»

Pier Paolo Pasolini

Una società che recita se stessa

La hypernormalisation non è un complotto, ma una forma di adattamento sistemico. È il meccanismo con cui le società continuano a funzionare anche quando il senso delle cose è venuto meno. Nella tarda URSS, il Partito continuava a produrre discorsi, assemblee, cerimonie; la gente partecipava, firmava, applaudiva. Ma erano gesti svuotati, senza più tensione ideologica, privati della fede. Eppure, proprio questa simulazione garantiva la tenuta del sistema: nessuno credeva più alla messinscena, ma nessuno voleva — o poteva — essere il primo a smettere di recitare.

Oggi, le nostre democrazie postmoderne fanno lo stesso. I media raccontano una realtà ordinata, gestibile. I governi parlano di transizione ecologica, inclusione, innovazione. I cittadini votano, condividono, commentano. Ma spesso è tutto parte di un rituale logoro. Le crisi si susseguono a ritmo accelerato: climatica, economica, bellica, esistenziale. Ma vengono narrate come eccezioni temporanee, non come segnali di un ordine che si sta disgregando. Nessuno ha il coraggio di dichiarare che il sistema non funziona più — e così, ci si aggrappa a una realtà fabbricata, ipersemplificata, in cui la forma salva la faccia al contenuto.


Jonathan Zawada – Over Time

La comunicazione come anestesia

La nostra hypernormalisation si fonda sulla comunicazione, ma non quella del dialogo socratico. È una comunicazione che non serve a capire, ma a ridurre l’impatto del caos. I media non filtrano più il reale: lo confezionano. Gli algoritmi costruiscono un presente addomesticato, pieno di opinioni ma privo di interpretazioni profonde. Ciò che ci viene offerto non è un discorso sul mondo, ma un surrogato del mondo. Ogni parola è già pronta, ogni posizione già assegnata, ogni conflitto già semplificato. In questo modo, anche la guerra — come quella che potrebbe deflagrare ora in Medio Oriente — si trasforma in un flusso d’immagini, uno sfondo tragico ma gestibile, tra le altre notifiche sullo schermo.

E così il mondo diventa leggibile ma inintelligibile. Comprensibile ma insensato. Si capiscono le cause, ma non se ne avverte più la portata. Il senso di urgenza viene diluito. La comunicazione, anziché svegliarci, ci fa scivolare in un sonno lucido, in cui tutto è visibile ma nulla è toccabile.


Jonathan Zawada – Over Time

Verso una nuova grammatica del reale

Di fronte a questa deriva, il pensiero critico ha una responsabilità storica. Non basta più denunciare le manipolazioni: occorre decostruire le architetture emotive che ci impediscono di sentire il presente. Serve una nuova grammatica per nominare ciò che è stato reso indicibile: la paura, la confusione, la fine delle certezze. Filosofia, arte, politica devono smettere di fingere che il re sia vestito. Devono imparare di nuovo a dire “non so”, “non funziona”, “non basta”.

La hypernormalisation è l’ideologia invisibile del nostro tempo. Non grida, non impone, non punisce. Accarezza. Calma. Addormenta. Ma ogni tanto, come questa notte a Teheran, la realtà squarcia il velo. E allora qualcosa vibra. Un’eco lontana ci ricorda che viviamo dentro una rappresentazione — e che potremmo, un giorno, riscriverne la sceneggiatura. Non sarà un gesto facile. Ma sarà, di certo, il più umano.

Nel frattempo, chi è sveglio ha il dovere di raccontare. Anche sottovoce. Anche senza certezze. Perché finché c’è parola autentica, non tutto è perduto.