In una Los Angeles che ancora digeriva gli strascichi della Beat Generation e cominciava a esplodere nel tecnicolor lisergico della controcultura anni Sessanta, Steve Scott ha incarnato una traiettoria raramente esplorata nei testi canonici della cultura underground: quella del costruttore di hot rod come artista outsider, come autore di un’estetica propria, marginale eppure potentemente influente. La sua figura, troppo facilmente ridotta a quella del “ragazzo prodigio” dell’automobilismo kustom per via della mitica Uncertain-T, merita una collocazione più ampia e storicamente consapevole all’interno della galassia grafica, editoriale e visuale del movimento underground americano.


Modello Uncertain T

Nato e cresciuto a Reseda, un sobborgo operaio della San Fernando Valley, Steve Scott si muove sin da giovanissimo in un perimetro preciso: quello della subcultura motoristica americana postbellica, figlia del boom economico e delle periferie, ma non per questo passiva. Le hot rod, in quel contesto, non erano solo oggetti estetici o mezzi di trasporto: erano medium culturali. Il custom car builder era, di fatto, un autore. E Scott ne ha interpretato il ruolo con una consapevolezza visiva e semiotica precoce.

Non è un caso che il suo primo gesto da autore sia stato quello di osservare, documentare, registrare. Prima ancora di costruire auto, Steve fotografava quelle degli altri. Con una Brownie scattava immagini che diventavano scambi visivi all’interno di un microcosmo suburbano fatto di viali anonimi, vernici metalflake e motori lucidati come sculture. Il passaggio alla fotografia semi-professionale con la Nikkorex F coincide con il momento in cui Scott inizia a pensare a sé stesso non solo come spettatore, ma come narratore. Le fotografie, richieste dagli amici e da altri appassionati, non sono semplici souvenir: sono oggetti semi-autonomi, micro-poster underground che circolano, vengono fotocopiati, incollati nelle camerette, e più tardi pubblicati in riviste specializzate. Ma è la Uncertain-T a consacrarlo come icona. Presentata nel 1965, quest’auto-show car ha rappresentato una discontinuità estetica radicale. Nessuna linea retta, proporzioni surreali, colori esasperati e un’identità ambigua, a metà tra il carro allegorico e la scultura futurista. Il nome stesso — The Uncertain-T — è un gioco concettuale: un riferimento al modello Ford T da cui trae ispirazione, ma anche un’allusione dichiarata all’assenza di stabilità, alla rottura delle norme canoniche del design automobilistico. In questo senso, l’auto non è solo un veicolo, ma un manifesto. La cultura grafica underground, in quegli stessi anni, sperimentava analoghe operazioni concettuali: la fanzine CARtoons, la rivista DRAG Cartoons, o le pubblicazioni minori come Rod & Custom funzionavano tutte come catalizzatori visivi di una cultura che fondeva tecnica, gioco e linguaggio visivo.


Ford T Model

CARtoons

DRAG Cartoons

Rod & Custom

Scott non era solo un costruttore: era anche redattore e fotografo per diverse riviste automobilistiche specializzate. Ma ciò che lo distingue è che usava quei media non solo per documentare, ma per scrivere una contro-narrazione dell’estetica americana. Dove Life e Time mostravano Kennedy, suburbia e modernità levigata, le riviste di hot rod presentavano un mondo alternativo, in technicolor saturato, popolato da freaks del carburatore, creature aerografate da Ed “Big Daddy” Roth, e ragazze pin-up dai tratti quasi cartonati. Scott si inserisce perfettamente in questo immaginario, ma con un tocco tutto suo: raffinato, ossessivo, quasi espressionista nella scelta delle linee e nell’uso dello spazio negativo. La sua influenza si misura non tanto con la popolarità — effimera, nel suo caso — ma con la capacità di aver definito un’estetica. La Uncertain-T è stata citata, rifatta, ripensata e fotografata infinite volte. È apparsa in decine di numeri speciali, in mostre, in raccolte fotografiche. Ma ciò che più conta è che ha funzionato come un oggetto visuale aperto: un “meme” ante-litteram che ha scatenato nuove versioni, nuove interpretazioni, nuove rotture delle convenzioni stilistiche. Il suo stile è riconoscibile non solo nell’oggetto-auto, ma nel modo di costruirlo e raccontarlo: Scott progettava “per sottrazione di regola”, lavorando su ciò che non doveva esserci, decostruendo prima con lo sguardo, poi con le mani. Lo si nota nei dettagli assurdi della Uncertain-T — i pneumatici sproporzionati, il tetto tagliato, le cromature che sembrano uscite da un cartoon di Tex Avery — e nel modo in cui li fotografava, non come documentazione, ma come enigma visivo.

Il legame tra Steve Scott e la grafica underground è quindi profondo e reciproco. La sua opera ha alimentato l’immaginario di un’intera generazione di giovani designer, fumettisti e grafici lowbrow che vedevano nell’hot rod una forma di arte applicata. È difficile immaginare i lavori di Robert Williams, ad esempio, o la rivista Juxtapoz, senza il precedente rappresentato da figure come Scott. Il suo modo di concepire il veicolo come linguaggio visivo trova eco nei visual artist contemporanei che trattano oggetti tecnici come forme di semiotica del desiderio. E in fondo, come tutte le figure cruciali della cultura underground, Steve Scott ha lavorato sul bordo: tra arte e meccanica, tra fotografia e progetto, tra cultura pop e gesto artigiano. Non era un designer accademico, né un artista concettuale, ma ha lasciato un’impronta — precisa, rumorosa, cromata — nell’estetica del fuori norma.


Steve Scott è l’Uncertain-T