Credo che, nonostante non sia certo un film contemporaneo, alcuni, forse molti, dei lettori, conosceranno il film l’Attimo FuggenteDead Poets Society – diretto da Peter Weir nel 1989 in cui recitava, oltre a Robin Williams, anche un giovanissimo Ethan Hawke. Senza stare troppo sulla trama, quello che spesso viene ricordato della pellicola, oltre alla leggendaria prova di Williams, è le recita dei brani poetici che fanno regolarmente capolino nello svolgersi della trama fra cui. Uno per tutti…

O Capitano! mio Capitano! il nostro viaggio tremendo è terminato; la nave ha superato ogni ostacolo, l’ambìto premio è conquistato; vicino è il porto, odo le campane, tutto il popolo esulta, mentre gli occhi seguono l’invitto scafo, la nave arcigna e intrepida; ma o cuore! cuore! cuore! o gocce rosse di sangue, là sul ponte dove giace il mio Capitano, caduto, freddo, morto.

O Capitano! mio Capitano! risorgi, odi le campane; risorgi — per te è issata la bandiera — per te squillano le trombe, per te fiori e ghirlande ornate di nastri — per te le coste affollate, te invoca la massa ondeggiante, a te volgono i volti ansiosi; ecco Capitano! amato padre! questo braccio sotto il tuo capo! è solo un sogno che sul ponte sei caduto, freddo, morto.

Non risponde il mio Capitano, le sue labbra sono pallide e immobili; non sente il padre mio il mio braccio, non ha più energia né volontà; la nave è all’ancora sana e salva, il suo viaggio concluso, finito; la nave vittoriosa è tornata dal viaggio tremendo, la meta è raggiunta; esultate, coste, e suonate, campane! mentre io con funebre passo percorro il ponte dove giace il mio Capitano, caduto, freddo, morto.

Per chi non amasse la letteratura americana, si tratta della poesia scritta dal poeta statunitense Walt Whitman dopo la morte del presidente statunitense Abraham Lincoln, avvenuta il 15 aprile 1865, ma adesso sarebbe opportuno fermarsi e chiedersi: ma di che cosa stiamo parlando?
Stiamo parlando del movimento filosofico e poetico sviluppatosi nel Nord America nei primi decenni dell’Ottocento, che, partendo dall’idealismo trascendentale di Immanuel Kant, esprimeva una reazione al razionalismo e un’esaltazione dell’individuo nei rapporti con la natura e la società: motivi che – per alcuni versi – possono ricondursi all’ideologia romantica, anche se il trascendentalismo si poneva come vigorosa affermazione dell’originalità della cultura americana nei confronti di quella europea. I maggiori rappresentanti della cultura e della filosofia del trascendentalismo sono senz’altro Ralph Waldo Emerson – da molti considerato il vero e proprio padre spirituale del movimento – Nathaniel Hawthorne, George Ripley, William Ellery Channing, Charles Timothy Brooks e Henry David Thoreau… e chi non ricorda il suo celebre passo…

Andai nei boschi perché desideravo vivere con saggezza, affrontando solo i fatti essenziali della vita, per vedere se non fossi riuscito a imparare quanto essa aveva da insegnarmi e per non dover scoprire in punto di morte di non aver vissuto. Il fatto è che non volevo vivere quella che non era una vita a meno che non fosse assolutamente necessario. Volevo vivere profondamente, succhiare tutto il midollo di essa, volevo vivere da gagliardo spartano, per sbaragliare ciò che vita non era, falciare ampio e raso terra e riporre la vita lì, in un angolo, ridotta ai suoi termini più semplici.

Ralph Waldo Emerson e Margaret Fuller

Fra i più attivi sostenitori del pensiero trascendalista, si trova anche Margaret Fuller, definita da Wikipedia come: “scrittrice, giornalista e patriota statunitense.” Amica di Emerson, la Fuller fu una delle principali protagoniste di quella che è stata forse una delle prime forme di magazine indipendente della storia dell’editoria, perlomeno statunitense, ovvero The Dial.
The Dial è stata una rivista americana – stampata a intermittenza dal 1840 al 1929 – come pubblicazione semi ufficiale dei Trascendentalisti con il sottotitolo A Magazine for Literature, Philosophy, and Religion. Dal 1880 al 1919, con l’uscita della Fuller, cambiò di molto la linea editoriale finendo per diventare una rivista di approfondimento politico e di critica letteraria.
Dal 1920 al 1929 fu infine la pubblicazione in cui si diffusero negli Stati Uniti le tendenze e le idee della nuova letteratura modernista in inglese.
I membri dell’Hedge Club, fra cui ritroviamo tutti i principali autori trascendentalisti, iniziarono i lavori per realizzare una propria rivista di filosofia e religione nell’ottobre 1839 mentre già altre riviste più classicamente di critica letteraria come la North American Review e il Christian Examiner si erano decisamente opposte alla pubblicazione dei loro testi.




Il 20 ottobre 1839, Margaret Fuller accettò di essere la prima direttrice mentre George Ripley fu il caporedattore. Il primo numero fu pubblicato nel luglio 1840 con un’introduzione di Emerson che parlava di un “Giornale con un nuovo spirito”.
Emerson scrisse a Fuller il 4 agosto 1840, quelle che secondo lui sarebbero dovute essere le ambizioni della rivista:

Non lo vorrei troppo puramente letterario, vorrei che fosse una rivista così aperta da riuscire a guidare l’opinione di questa nuova generazione su ogni grande argomento. Che sappia leggere la società, discutere di proprietà, di governo, di istruzione, così come di arte, lettere e religione.
Un grande diario che le persone devono amare leggere.

Il titolo della rivista – suggerito da Amos Bronson Alcott – intendeva evocare una meridiana. Le connotazioni dell’immagine sono state ampliate da Emerson nel concludere la sua introduzione editoriale al primo numero della rivista:

E così con mani diligenti e buone intenzioni abbiamo posato il nostro quadrante sulla terra. Vorremmo che assomigli a quello strumento che non misura le ore se non quelle del sole.
Lascia che sia una voce allegra e razionale in mezzo al frastuono e le polemiche o – per rispettare la nostra immagine scelta – lascia che sia proprio questo quadrante, non come quello morto di un orologio, ma piuttosto un quadrante come lo è il giardino stesso, nelle cui foglie e fiori il dormiente improvvisamente risvegliato viene immediatamente informato non in quanto vivente del tempo morto, ma come essere fatto di pura vita e crescita.

Fin dai sui primi numeri The Dial venne pesantemente criticato, anche da alcuni degli stessi trascendentalisti. Nel 1843, Elizabeth Peabody, in qualità di direttore aziendale e principale finanziatore del progetto, notò che le entrate della rivista non coprivano i costi di stampa e che gli abbonamenti ammontavano a poco più di duecento. La pubblicazione cessò nell’aprile 1844. Horace Greeley, nel numero del 25 maggio del New-York Weekly Tribune, ne scrisse in un accorato articolo in cui parlava del The Dial come il “periodico più originale e interessante mai pubblicato in questo paese”.
Nell’arco della sua travagliata esistenza, The Dial ha pubblicato opere d’arte, poesie e saggi, con artisti che vanno da Vincent van Gogh, Pierre-Auguste Renoir, Henri Matisse e Odilon Redon, passando per Oskar Kokoschka, Constantin Brâncuși, Edvard Munch, Georgia O’Keeffe e Joseph Stella.
La rivista riportava anche la vita culturale delle differenti capitali europee con testi di scrittori come TS Eliot da Londra, John Eglinton da Dublino, Ezra Pound da Parigi, Thomas Mann dalla Germania, Hugo von Hofmannsthal di Vienna.



The Dial è stata pertanto una rivista che ha portato con sé, almeno nella prima sua incarnazione guidata dal duo Fuller – Emerson, una prospettiva generale del mondo, una visione dell’esistenza che poi diverrà una caratteristica tipica di quelle che chiameremo le riviste delle avanguardie storiche europee del primo Novecento. Un esempio, ferreo e rigoroso, di come uno strumento editoriale sia potuto farsi trasmettitore non solo di idee e stili letterari e/o filosofico, ma addirittura di un rinnovamento esistenziale, proprio questo aspetto così innovativo e peculiare di The Dial – a mio avviso – ne fa uno dei primi magazine che possono essere definiti con quell’aggettivo che tanto sarà nel secolo successivo inflazionato ovvero indipendente.