Devo ammettere che sono settimane, potrei dire anche mesi, che vado cercando nei meandri dell’Internet quella che potrebbe essere una definizione di un elemento che sempre più spesso mi trovo a vedere sia al cinema che nelle serie TV, ma non solo… Sto parlando di quell’oggetto – forse sarebbe meglio utilizzare il termine strumento – attraverso il quale avviene oramai ogni costruzione della narrazione, una costruzione che si dipana di fronte a noi in modo lento e complesso attraverso il delinearsi di quella che potremmo definire la “parete degli indizi”. Dopotutto è questo che l’internet ti restituisce se digiti investigation board, o detective wall o crime board o…
Confesso che sono rimasto enormemente deluso dal fatto di non aver trovato una vera e propria definizione per “parete degli indizi”. Ritengo ci sia anche del difetto da parte mia nel non saper cercare, ma ero davvero sicuro che non solo ne avrei trovata una coincisa e condivisa, ma anche e soprattutto che lo avrei fatto in tempi assai brevi, convinto dall’enorme successo che tale strumento ha acquisito nell’immaginario pubblico di tutto il Pianeta.
Fotografie, parole, nomi, fili e legami, frecce, adesivi e scotch. Un collage di dimensioni più o meno variabili dal quale estrapolare non solo la linea narrativa ma anche il suo verso, la direzione – se presente – in cui si muoveranno gli eventi come in. una specie di domino visuale. Una catena di elementi, tutti legati fra loro da almeno un punto di contatto logico sequenziale che permette di “srotolare” e dischiudere quello che è il senso della storia che si va narrando con un processo aggiuntivo, addizionale, dove si procede passo per passo in una direzione che non è mai – altro aspetto che andrebbe approfondito – del tutto terminata. Come ha ben scritto il regista Davide Ferrario sul numero 605 dell’inserto culturale del Corriere della Sera, La Lettura con il suo articolo dal titolo emblematico e calzante La fine della fine, che bene rappresenta ciò che il processo che stiamo descrivendo porta con sé. Ancora una volta, la migliore riprova del lento ma inesorabile superamento di ciò che fino a ieri abbiamo definito “fine della storia”, è immediatamente riscontrabile nelle forme di narrazione più mainstream e popolari. Guardiamo una delle infinite serie TV – sia occidentali che asiatiche, non fa nessunissima differenza – e notiamo come questo non hanno una vera e propria fine, non termina mai davvero la narrazione. Quello che accade è la volontà manifestata di lasciare aperti nuovi sviluppi, nuove strade, ulteriori narrazioni anche al di là della serialità oggi tanto in voga. Questo, a ben vedere, vale addirittura per ciò che è ex ante e non solo ex post. Se infatti avevamo confidenza con il concetto di remake, oggi siamo abituati alle produzioni che partendo da una narrazione originale – sempre che possa definirsi tale – la ripropongono a partire da punti diversi della storia, dal prima o dal dopo come nei prequel o sequel, creandone una linea parallela come nei reboot, e poi la saga, lo spin-off, il revival. A tutto ciò si affianca, potremmo dire che storicamente ne ha favorito la nascita e lo sviluppo, l’immenso fenomeno della produzione di fanfiction che porterebbe il discorso da tutt’altra parte.



Una processo questo della costruzione di senso tramite link, collegamenti e addizioni di micro elementi che mi ricorda le costruzioni che facevo da bambino con scatole e scatole di pezzi di Lego che niente avevano più a che fare con l’oggetto iniziale per cui erano stati acquistati. Una forma di costruzione – dal latino construere, in cui com sta per insieme e struere sta per accumulare, ammassare – che mi riporta alla mente una mia interessante chiacchierata con il combo di artisti Federica Patera e Andrea Sbra Perego relativamente al loro progetto RAR di cui potete trovare il risultato qua.
Se proviamo a ricostruire storicamente la teoria che sta alla base dell’enorme successo che oramai da anni riscuote questo paradigma di significato, ne ritroviamo tracce un po’ ovunque, dalle teorie che stavano alla base dei primi assemblage di inizio Novecento ad opera di Picasso e Braque, fino al concetto di narrazione per database introdotto sul finire dello stesso secolo nello studio dei media digitali da Lev Manovich, passando attraverso i détournement, i cut-up o i papier collé.
A seconda del periodo storico o del campo di analisi che prendiamo in considerazione, l’approccio che abbiamo definito come investigation board, è stato descritto in vari modi e secondo diverse definizioni fra cui si può ricordare il collage dei Dadaisti, il montage di Ėjzenštejn, il remix di Lawrence Lessing, il mash-up, e mi fermo qua anche se potrei continuare ancora e ancora.



In definitiva quindi, a ben vedere, non si tratta di adeguarsi o fare i conti con chissà quale rivoluzione antropologica, quindi ciò che mi colpisce non sta nello strappo in avanti o nel cambio di paradigma, quello è oramai definito e sotto gli occhi di tutti. Ciò che mi appare degno di sottolineatura è invece l’esatto opposto, non il processo di cambiamento con i suoi traumi e mutazioni, ma l’assimilazione silenziosa, la trasformazione genetica del nostro essere a cui non si è accompagnato nessuno scossone, nessun trauma appunto. È infatti proprio il nostro avvertire tale passaggio come del tutto naturale, potremmo dire addirittura congenito alla nostra forma mentis, che rende il paradigma della “parete degli indizi” da un lato assolutamente invisibile e dall’altro, oramai del tutto pervasivo di ogni linguaggio comunicativo-espressivo.
Non ci rendiamo neppure più conto – tanto è nostro – che il modo di dare senso al mondo, di creare e ordinare ciò che viviamo e raccontiamo, è oramai uno ed uno solo. Non abbiamo piani B, alternative o scelte. Siamo in grado di costruire storie – e quindi di auto rappresentarci delle spiegazioni sul perché della nostra esistenza – oramai solo ed esclusivamente mediante questa forma di senso avendo oramai quasi del tutto abbandonato quella che, sempre lo stesso Lev Manovich, ha definito in opposizione a quella su database, come “narrazione lineare”. Questo essere oramai così immersi in questo nuovo paradigma della creazione di senso, con tutte le sue specificità di cui la citata “fine della fine” non è uno degli elementi caratterizzanti, mi riporta alla mente una storia che lessi anni fa e che molte volte viene citata.
Si tratta di quel brano di David Foster Wallace pubblicato nella sua ultima fatica uscita postuma con il titolo Questa è l’acqua, in cui il geniaccio di Ithaca narra di due giovani pesci che nuotano sereni e spensierati. A un certo punto incontrano un pesce più anziano di loro proveniente dalla direzione opposta. Questo fa un cenno di saluto e dice: Salve ragazzi! Com’è l’acqua oggi?.
I due giovani pesci proseguono per un po’ finché, arrestandosi di colpo, uno guarda l’altro e stupito si domanda: Acqua? Che cos’è l’acqua?.