Poiché l’inesorabile logica della realtà non ha creato altro che problemi irrisolvibili, è giunto il momento che l’illusione prenda il sopravvento.
E può esserci solo un candidato illogico: Mr. Peanut.
William S. Burroughs
La tradizione di candidare alle elezioni per il Presidente degli Stati Uniti d’America personaggi e – ancor di più animali o simili – è un fenomeno che può apparire assurdo ma che andrebbe ricostruito con l’obiettivo di trarne dei significati che forse ad una prima lettura, possono sfuggire, sepolti sotto un manto di provocazione e non sense a cui gli americani ci hanno abituati da sempre.
Per quanto ne posso sapere, una delle prime candidature che possiamo definire fuori dagli schemi è quella che risale al 1956 quando, la leggendaria rivista underground di fumetto e satira Mad Magazine pubblicò per la prima volta l’immagine di quella che sarebbe divenuta la propria mascotte, quell’Alfred E. Newman che ancora oggi è la vera immagine pubblica della rivista, onnipresente nelle sue corrosive copertine, su cui nel corso dei decenni è comparso oltre 500 volte.
Volto riconoscibilissimo, capelli rossi con la divisa, sorriso con i denti spalancati, lentiggini, orecchie sporgenti e il corpo magro, questo è Alfred, personaggio che la rivista ha invitato a votare ad ogni elezione presidenziale degli Stati Uniti dal 1956 al 1980 con slogan quali “You could do worse– you always have!” and “There are bigger idiots running for office!”.
Un altro spassoso profilo che è stato candidato alla Casa Bianca è senz’altro quello di Pigasus, noto anche come Pigasus the Immortal o Pigasus J. Pig, un maiale domestico di circa 66 kg candidato provocatoriamente a Presidente degli Stati Uniti d’America dallo Youth International Party il 23 agosto 1968, appena prima dell’apertura della Convenzione Nazionale Democratica svoltasi a Chicago, Illinois… avete per caso visto il film The Trial of the Chicago 7 ? Ecco, la storia dei sette attivisti e del delirante weekend democratico di Chicago in cui le forze dell’ordine oltre a picchiare tutto e tutti dovettero anche scendere nelle reti fognarie per sventare un terribile attacco in cui si diceva erano state sciolte grandi dii LSD nei tubi civili di tutte le famiglie della città, è a mio avviso ben descritta dalla pellicola di Aaron Sorkin. Lo Youth International Party, i cui membri erano comunemente chiamati Yippies, era un gruppo controculturale le cui opinioni erano ispirate dalla libertà di parola ed ai movimenti contro la guerra degli anni Sessanta principalmente in opposizione al coinvolgimento degli Stati Uniti nella guerra del Vietnam.
Sulla scia di nobili predecessori quali i Provo olandesi, gli Yippies erano noti per l’uso spettacolare e politico dei mass media, basti pensare a quello che oggi si definirebbe un flash mob, ma che a mio avviso ha molto più i tratti di una performance artistica o guerrilla theatre, in cui Abbie Hoffman la mattina del 24 agosto 1967 entrò di soppiatto nel cuore finanziario mondiale ovvero la borsa di Wall Street dove cominciò a gettare dall’alto in basso banconote da un dollaro. Il risultato – ben descritto dal reportage di Lorraine Boissoneault per lo Smithsonian Magazine – fu che tutti i dipendenti mollarono le proprie postazioni e il proprio lavoro per dare inizio ad una zuffa di dimensioni considerevoli per accaparrarsi i pochi miseri dollari oramai giunti a terra. La totale critica al denaro come fonte di disperata schiavitù alla base del gesto di Hoffman non credo sia molto da spiegare dato che il risultato fu tanto evidente quanto tristemente prevedibile e grottesco.
Dopo questo veloce e parzialissimo excursus storico sulle candidature più assurde delle elezioni presidenziali americane, ecco che arriviamo alle disavventure di Vincent Trasov, artista che si trasforma in Mr. Peanut nel 1971, ma andiamo a vedere un po’ meglio di cosa stiamo parlando…
Tutto è iniziato quando Vincent Trasov stava disegnando Mr. Peanut, la mascotte di Planters, azienda americana di snack. Il personaggio di Mr. Peanut era intento a ballare il tip tap per un progetto di film da realizzare in stop motion ma, annoiandosi mortalmente, lo stesso Trasov decise di realizzare invece un costume a grandezza naturale con cui egli stesso improvvisò un improbabile balletto.
Da allora in poi, il personaggio Mr. Peanut invece di promuovere Planters, divenne lo pseudonimo con cui Trasov “firmò” alcune sue strambe azioni teatrali che – come molti artisti di Vancouver legati al The Western Front – si divertiva a lavorare sotto un nome fittizio. Altri componenti del gruppo erano Marcel Dot (pseudonimo usato da Michael Morris), Anna Banana (Anne Lee Long) e General Idea (AA Bronson, Felix Partz e Jorge Zontal), collettivo composto dai tre artisti canadesi attivi dal 1967 al 1994 come pionieri della prima fase dell’arte concettuale basata sull’analisi del funzionamento e sugli effetti dei nuovi media.
Ciò che mi ha colpito nella produzione artistica di Trasov risale al 1969, quando insieme all’artista Michael Morris, creò una rete di artisti senza un vero leader né una vera organizzazione, che si pose come obiettivo quello di connettersi e scambiarsi materiali di ogni sorta, perlopiù mail art, fanzine, poster, volantini e altro materiale a stampa. Il progetto prese il nome di Image Bank.
Image Bank ha la volontà artistico-politica di rappresentare un modello utopico e alternativo di distribuzione dell’arte che opera al di fuori di istituzioni come il museo e il mercato. Sull’onda di correnti come Fluxus, ma ancor di più mi viene da dire il Neoismo, Image Bank si costruisce attraverso uno scambio internazionale di corrispondenza postale rientrando in questo modo a pieno titolo nella storia della Mail art. Come scopro dal pezzo di presentazione della mostra svoltasi presso la KW Institute for Contemporary Art di Berlino nel 2017, tra gli artisti che parteciparono alla rete di scambio in costante crescita c’erano – oltre a Morris, Trasov e Lee-Nova – Dana Atchley, Robert Cumming, Dick Higgins, Geoff Hendricks, Eric Metcalfe e Willoughby Sharp.
In tutto questo, Trasov assunse sempre più spesso l’identità di Mr. Peanut, producendo addirittura The Mr. Peanut Mayoralty Campaign, un progetto di performance art durata venti giorni e sviluppata in collaborazione con i già citati membri della comunità artistica di Vancouver.
Giocando con la persona e l’identità, Vincent Trasov è scivolato nel guscio dell’arachide e ha assunto senza sforzo il ruolo di Mr. Peanut con eleganza e disinvoltura soprattutto se pensata durante una fase storica in cui già emergeva il dibattito sulla smaterializzazione dell’arte. L’interesse di Trasov per i film d’animazione lo ha portato ad appropriarsi dell’antropomorfo Mr. Peanut prima attraverso il disegno con la realizzazione del progetto grafico Mr. Peanut Drawings che raccoglie quasi un centinaio di disegni Mr. Peanut realizzati da Trasov accompagnati da un testo di Nancy Tousley, poi è arrivato il flip-book che è stato poi tradotto in pellicola. Questi primi sforzi furono realizzati presso gli studi Intermedia, a Vancouver, ma non passò molto tempo prima che Mr. Peanut iniziasse a sorprendere il pubblico presentandosi in luoghi come il Queen Elizabeth Park e assumendo la posa familiare accanto a un’opera di scultura di Henry Moore.
Più tardi, Trasov nei panni di Mr. Peanut sarebbe apparso a Toronto, Victoria, Halifax, New York e Los Angeles. Su suggerimento del collega artista John Mitchell, Trasov fu convinto anche ad indossare il costume come simbolo delle aspirazioni collettive della comunità artistica locale e a candidarsi a sindaco nelle elezioni civiche di Vancouver del 1974 attraverso la piattaforma artistica: P for Performance, E for Elegance, A for Art, N for Nonsense, U per Unicità e T per Talento.
L’autore William S. Burroughs, all’epoca ospite a Vancouver, diede il seguente sostegno alla candidatura di Trasov:
Vorrei cogliere l’occasione per sostenere la candidatura di Mr. Peanut a sindaco di Vancouver. Mr. Peanut corre sulla piattaforma artistica P.E.A.C.E. e l’arte è creazione di illusioni. Poiché l’inesorabile logica della realtà non ha creato altro che problemi irrisolvibili, è giunto il momento che l’illusione prenda il sopravvento. E può esserci solo un candidato illogico e questo è senz’altro Mr. Peanut.
Durante la sua campagna elettorale Mr. Peanut apparve per le strade, alle riunioni di tutti i candidati e nei dibattiti televisivi, circondato dai giornalisti ovunque egli si manifestasse. Tutti parlavano di Mr. Peanut mentre lui trascorreva le proprie giornate ballando in pubblico il tip tap e facendo roteare il proprio bastone. La campagna elettorale si concluse nel 1974 con una performance durata ben 20 giorni dal titolo The Mr. Peanut Mayoralty Campaign con John Mitchell come responsabile della campagna e portavoce, e il coinvolgimento di collettivi e singoli artisti che portarono, allo spoglio finale delle schede elettorali, ad un risultato per Mr. Peanut di 2.685 voti, pari al 3,4% dei voti complessivi.
Quasi 50 anni dopo, il regista di documentari Andrew Muir ha riportato alla ribalta la performance di Trasov con il documentario Peanut For Mayor. L’obiettivo di Muir era quello di mostrare il modo in cui il consumo dei media e la parodia politica siano cambiati nel corso dei decenni. È infatti troppo semplicistico liquidare questo pezzo di storia di Vancouver come un sottoprodotto della controcultura degli anni Settanta visto che il film di Muir pone in evidenza la capacità di Vincent Trasov di manipolare i media inducendoli a collaborare acriticamente con la sua critica sociale, soprattutto in un’epoca in cui ottenere spazi “artistici” sullo schermo televisivo era una vera e propria impresa.
Certamente la candidatura di Mr. Peanut è stata pura performance artistica, ma il senso ultimo del progetto di Mr. Peanut risalente oramai ad oltre 50 anni fa era in realtà un’altro, ben più lungimirante, e si basava sulla constatazione che anche gli altri candidati si esibiscono in una spettacolare performance e oggine siamo tutti spettatori.
In un mondo fluido incessantemente attraversato da meme e post sui social media, le pratiche e le metodologie di Image Bank e Mr. Peanut persistono ancora oggi nella loro attualità con cui ci ricordano quanto sia vitale continuare a mettere in discussione le istituzioni esistenti sia dell’arte che delle istituzioni politiche.