Occorre rimboccarsi le maniche e fare quello che facevano i militanti alla fine dell’Ottocento, ovvero alfabetizzare politicamente le persone. Una delle grandi manivre in questa guerra culturale lanciata dal neoliberismo è stata quella di ricreare un analfabetismo politico di massa, facendoci ritornare plebe. Quindi è da qui che si parte. E poi bisogna credere nel conflitto, progettarlo, parteciparvi. Il conflitto è la cosa più importante.

da La controrivoluzione delle élite di cui non ci siamo accorti, Marco D’Eramo

Ogni libro possiede una propria storia, un percorso più o meno lungo e tortuoso dentro di sé, una sostanza invisibile ai più che lo rende una traccia di un tragitto, un tratto di un cammino, che solo chi ne ha fatto parte può dire davvero di conoscere fino in fondo.
Questo è il primo pensiero che è saltellato fuori al termine della lettura di CHEAP. Disobbetide con generosità, il libro edito dalle edizioni People nel mese di ottobre e che rientra in quell’opera di indagine delle sottoculture grafiche che la casa editrice romana sta portando avanti dopo la pubblicazione di Ex Voto di Testi Manifesti.



Non starò qua a ripercorrere le numerose e tortuose tappe della vita del collettivo CHEAP – nato in quel 2012 caratterizzato dal terremoto in Emilia Romagna – e giunto fino ad oggi attraverso avventurose iniziative artistiche, anzi politiche, anzi entrambe. Ciò che di questo bel libro mi piace mettere in evidenza è infatti altro, è quel qualcosa di speciale che solo certi progetti riescono a sprigionare e soprattutto mantenere nonostante come si dice, il tempo logori ogni cosa.
Nato come progetto di rigenerazione urbana in quel di Bologna, CHEAP è oggi una delle più importanti e solide realtà che, partendo da un approccio tipicamente underground, ha saputo confrontarsi con istituzioni ed enti pubblici senza mai mollare di un centimetro sulla propria identità. Solo chi si è trovato nella condizione di dover realizzare progetti con qualsiasi amministrazione pubblica sa quanto impegno, pazienza e passione sia alla base di quel “non mollare di un centimetro”.
Animando le vie della città con poster e street art, CHEAP ha indicato in quest’ultimo decennio una direzione, una pratica, un esempio che altri spero proveranno a seguire in futuro. Questo basterebbe per giustificare un plauso a coloro che di questa idea ne sono state le ideatrici. Chi è stato in strada insomma con colla, pennelli, scale, poster e tutto il resto…




Il libro, una sorta di punto e accapo nella storia del collettivo, contiene come è ovvio molte – perché tutte sarebbe stato impossibile – delle opere attaccate sui muri da CHEAP ma credo sia interessante anche e soprattutto la parte testuale in cui il memoir si intreccia senza evidenti contraccolpi al manifesto politico, fra aneddoti e rivendicazioni che ne fanno a mio avviso un pezzo di storia dell’underground italiano destinato a restare nel tempo.
Innanzi tutto uno dei primi passaggi da evidenziare è quello in cui si fa riferimento alle Guerrilla Girls, gruppo di artiste nato nella metà degli anni Ottanta a New York, che decide di intervenire direttamente su quello che viene definito “il gap sulla base del genere e della razza all’interno del sistema dell’arte contemporanea e delle sue istituzioni”.
In questo caso, fra le altre cose, è interessante sottolineare l’utilizzo del nome collettivo – pratica lanciata sulla scia del movimento Fluxus, da Claes Oldenburg e ripresa dal Neoismo di Stewart Home, come anche da CHEAP – che ci suggerisce non troppo velatamente una delle innumerevoli discendenze indirette del progetto. Il nome collettivo è una protezione dell’identità non solo di chi opera in clandestinità o contro un sistema autoritario, sia esso artistico o politico, il nome collettivo è allo
stesso tempo una zona di confine, un territorio franco nel quale convergere o nel quale far convergere azioni e progetti che hanno nel proprio DNA i concetti di rete, attivismo, arte.
Inoltre, una pratica come quella posta in essere da CHEAP che fa del luogo, del territorio, dell’aria che si respira per strada, il proprio centro di gravità permanente è chiaro che porti dentro di sé alcune specificità tipiche del luogo stesso in cui si manifesta e quindi ecco che la città di Bologna, con la sua storia, entra prepotentemente nel nostro discorso. Bologna, non a caso patria di uno dei nomi collettivi più famosi della storia recente come Luther Blisset, io la ritrovo dentro ogni passaggio del libro, dentro ogni svolta del gruppo e dentro ogni rivendicazione politico-culturale che fuoriesce dalle parole traboccanti passione e impegno. Bologna come minimo comune denominatore insomma, la città del Movimento del Settantasette, di cui fortissimo si sente l’eco nel tono continuamente in bilico fra militanza e provocazione tipico di tutto il progetto CHEAP. Basti a questo proposito pensare al titolo dell’ultimo capitolo del libro, Praticare l’impossibile a cui mi è venuto spontaneo associare non solo i meravigliosi slogan anch’essi stampati su poster durante il Maggio francese dagli studenti dell’Atelier Populaire come Tutto e subito, Vietato vietare, L’immaginazione al potere, ma anche il titolo del libro La rivoluzione è finita abbiamo vinto di Luca Chiurchiù (DeriveApprodi, 2017) che non ha caso ripercorre la storia della rivista A/traverso, altro snodo epocale dell’underground bolognese. Bologna, la città di Radio Alice, una delle prime radio libera sorte in Italia alla fine degli anni Settanta. Bologna, la città insieme a Milano e Roma dove per prime nascono le prime band punk, il demenziale rock degli Skiantos e le occupazioni di “spazi liberati”. Non può essere un caso dunque se CHEAP sia nato proprio in questa città; che sia cresciuto come si legge nel libro, come una “pianta infestante, come un virus che si reinventa e muta a seconda del contesto che infesta”, proprio laddove si discuteva nelle affollatissime riunioni studentesche di Maodadaismo e dove furono di casa per un certo periodo Gilles Deleuze e Felix Guattari che con il loro Rizoma tentavano di delineare le forme ed i processi culturali del protagonismo sovversivo e della diffusione del movimento underground del tempo proprio come una pianta che si espande senza linearità o direzioni codificate. Ecco, adesso che abbiamo delineato, almeno in parte, il percorso storico-culturale di CHEAP credo si possa capire meglio come questo progetto sia stato in grado di superare il drammatico periodo pandemico da COVID-19 che poteva divenire letale, definitivo, per chi ha da sempre basato la propria identità sul concetto di presenza fisica, di un essere e vivere nei luoghi insieme agli altri, un altro punto questo che rimanda direttamente ad una tradizione controculturale che viene colpevolmente cancellata dalla memoria storica non solo di Bologna.
La storia di CHEAP giunge a noi dopo un decennio complesso in cui sono state portate a termine un’infinità di collaborazioni con artiste e artisti quali le già citate Guerrillla Girls, Testi Manifesti, MissMe, Stikki Peaches, Signora K e James Kalinda, un cammino immagino periglioso e per questo memorabile, una storia scritta – forse meglio dire attaccata – sempre inseguendo sogni ma fatti però sempre di vivida realtà con una serie di obiettivi ben riassunti nel libro stesso nella chiara dichiarazione di intenti

Il nostro obiettivo è costruire e produrre segni
che raccontino la nostra liberazione

Direi che questa frase del libro giunge perfettamente senza fronzoli all’estrema sintesi che ritengo sia la base di ogni parola stampata in queste pagine. Mi piace dunque lasciarvi così, con questa dichiarazione come invito alla lettura con la speranza che CHEAP continui ad essere parte integrante e instancabile motore di un conflitto sociale tanto necessario quanto salutare per le nostre società, un conflitto che appunto sappia sempre mantenere al centro del suo orizzonte il tema della liberazione. Il resto starà a noi renderlo reale.


IL LIBRO LO TROVATE QUA