Un’epopea senza tramonto

L’America non si è mai davvero lasciata alle spalle il Far West. Più che un’epoca storica delimitata, il West è una categoria dell’immaginario collettivo, un orizzonte mitologico in cui si fondono il destino manifesto, l’individualismo eroico e la violenza come strumento di risoluzione dei conflitti. Il mito della frontiera, codificato nel 1893 dallo storico Frederick Jackson Turner, non è solo la narrazione di un’espansione territoriale, ma il fondamento stesso dell’identità americana: l’idea che la nazione si sia forgiata nel confronto con una natura ostile e con un nemico barbarico da domare. Questo mito ha attraversato il Novecento passando dal cinema classico hollywoodiano alla cultura pop, riemergendo ciclicamente ogni volta che l’America ha sentito il bisogno di ridefinire se stessa.

Non è un caso, dunque, che il West sia tornato con prepotenza sulla scena politica con Donald Trump. Il suo slogan “Make America Great Again” riecheggia l’ossessione per un’epoca d’oro perduta, proprio come i western di John Ford e Howard Hawks raccontavano un mondo ormai tramontato, ma ancora capace di insegnare qualcosa all’uomo moderno. Trump ha saputo sfruttare questa nostalgia, reinventando il mito della frontiera in chiave contemporanea: il confine non è più quello della wilderness da conquistare, ma quello del Messico da blindare, mentre il cowboy solitario si reincarna nell’imprenditore spregiudicato, nell’uomo che non deve chiedere mai, che si fa da sé e che risponde solo alla propria volontà.



L’eroe solitario e la retorica del self-made man

La politica trumpiana è stata un aggiornamento spregiudicato della mitologia individualista del West. La sua figura incarna il self-made man nella sua versione più brutale, quella che non deve nulla a nessuno e non riconosce altra legge se non la propria. Il West classico è popolato da uomini duri, poco inclini alla mediazione, pronti a difendere la propria terra e il proprio onore con il piombo. Allo stesso modo, Trump ha costruito la sua immagine di leader su una retorica testosteronica e anti-istituzionale: il disprezzo per il politicamente corretto, la diffidenza nei confronti degli intellettuali e delle élite, il gusto per la sfida diretta e il confronto muscolare.

La politica estera trumpiana è stata, in questo senso, un western su scala globale: il decisionismo impulsivo, l’imprevedibilità, il rifiuto delle alleanze tradizionali ricordano più l’agire di un pistolero solitario che quello di un capo di Stato. Anche la comunicazione politica ha seguito questa estetica: gli insulti via social, le dichiarazioni incendiarie, l’atteggiamento da giocatore d’azzardo che rilancia continuamente la posta sono tutte manifestazioni di un’ideologia che trova le proprie radici in una visione brutale della competizione.



Legge, ordine e l’ossessione per il nemico

Il Far West era una terra senza legge, o meglio, con una legge che si imponeva con la forza delle armi. Il mito della frontiera è inseparabile dall’idea che l’ordine sia qualcosa che va ristabilito con la violenza, che il caos sia una minaccia sempre incombente e che la sicurezza passi attraverso l’azione diretta. Trump ha fatto propria questa narrativa, presentandosi come l’unico argine al disordine, come lo sceriffo che ripulisce la città dai fuorilegge. La sua ossessione per il crimine, il culto delle forze dell’ordine, il disprezzo per il garantismo liberale sono tutti elementi che riecheggiano la visione manichea dei western più classici, in cui il bene e il male sono netti e la giustizia è una questione di pallottole, non di processi.

Ma in ogni western c’è un nemico, un barbaro da esorcizzare. Nel caso del West classico erano i nativi americani, descritti come un ostacolo alla civiltà. Nella versione trumpiana, il nemico è stato declinato in vari modi: i migranti, i musulmani, la sinistra radicale, i giornalisti, le élite globaliste. Ogni campagna elettorale è stata costruita come un duello all’OK Corral, con una netta separazione tra chi sta dalla parte della civiltà e chi invece la minaccia.



La frontiera non esiste, ma il suo mito sì

Il paradosso è che il West, quello vero, non è mai esistito come lo raccontano i film. La frontiera non era solo un luogo di conquista eroica, ma anche di mescolanza culturale, di scambi tra comunità, di mediazioni politiche. Allo stesso modo, il West di Trump è un costrutto narrativo, un’invenzione propagandistica che serve a tenere in vita un immaginario anacronistico.

Eppure, questa finzione funziona. Il mito della frontiera è stato interiorizzato a tal punto dalla cultura americana che anche nel XXI secolo può essere rianimato con poche parole d’ordine. La politica di Trump è stata un esperimento di western postmoderno: ha preso gli elementi più spettacolari del mito americano e li ha rimessi in scena in un’epoca che dovrebbe averli superati. Il risultato è stato un ibrido surreale, in cui un miliardario newyorkese è riuscito a impersonare l’archetipo del cowboy, parlando a una nazione che ancora si crede in sella, pronta a conquistare un territorio che, in realtà, non esiste più.



Note

1. Frederick Jackson Turner, Il significato della frontiera nella storia americana, Torino, Einaudi, 1973.

2. Richard Slotkin, Gunfighter Nation: The Myth of the Frontier in Twentieth-Century America, Norman, University of Oklahoma Press, 1998.

3. Neil Campbell, The Rhizomatic West: Representing the American West in a Transnational, Global, Media Age, Lincoln, University of Nebraska Press, 2008.

4. Henry Nash Smith, Virgin Land: The American West as Symbol and Myth, Cambridge, Harvard University Press, 1950.