Il 17 luglio 1998, Bill Gates, allora l’uomo più ricco del mondo e simbolo vivente del capitalismo digitale in ascesa, fu colpito da una torta in pieno volto all’ingresso del lussuoso Hotel Hilton di Bruxelles. L’atto fu messo in scena da un piccolo gruppo di attivisti, tra cui spiccava Noël Godin, artista belga noto come “l’entarteur”, figura centrale nella storia di questo gesto performativo. L’evento, perfettamente documentato dalle telecamere dei telegiornali, scatenò un cortocircuito mediatico: il magnate dell’informatica, paladino dell’ordine tecnologico e dell’efficienza globale, ridotto a una maschera comica, imbrattata di panna e umiliazione, di fronte all’occhio freddo delle videocamere. Il gesto, apparentemente infantile, si rivelò invece un’azione di potenza comunicativa devastante, in grado di annientare per un istante l’alone di invulnerabilità che circonda le élite economiche e politiche del mondo. Fu un momento preciso di rottura simbolica: la risata diventava l’arma più sovversiva, e la torta, una granata dolciastra contro l’arroganza del potere.

Noël Godin. (Foto: Laurence und Jacques Charlier)
L’arte del lancio della torta come forma di critica sociale non nasce nel vuoto. Essa si radica in una lunga genealogia che attraversa l’estetica del grottesco, il teatro dell’assurdo e la tradizione anarchica dell’agitprop. Già nei primi film muti, la torta in faccia rappresentava l’antitesi dell’autorità: basti pensare al cinema di Mack Sennett o a certe sequenze chapliniane, in cui la figura del potente viene scomposta e ridicolizzata. Ma è negli anni Settanta che il gesto si carica di una precisa valenza politica, in particolare grazie all’attività di gruppi come i Biotic Baking Brigade (BBB) e i The Clandestine Insurgent Rebel Clown Army. Il primo, attivo soprattutto negli Stati Uniti, univa ambientalismo radicale e critica al neoliberismo, colpendo con le loro torte personaggi come Andy Grove (CEO di Intel), Ann Veneman (Segretaria dell’Agricoltura), e Milton Friedman, padre del monetarismo. L’azione era sempre accompagnata da un comunicato stampa, spesso ironico e assurdamente teorico, in cui si esplicitavano le motivazioni dell’“attentato pasticciato”. Ma la storia della torta in faccia come linguaggio politico non è solo maschile. Alcune attiviste femministe radicali, come Debbie Almontaser, utilizzarono il gesto in contesti legati alla lotta per i diritti civili e alla visibilità delle minoranze, sovvertendo con umorismo una comunicazione tradizionalmente dominata da toni solenni e logocentrici. Il loro uso della torta non era solo un atto di dissacrazione, ma anche un modo per riappropriarsi del corpo e dello spazio mediatico in modo ludico ma letale. All’interno della logica dello “shock estetico”, la panna diventa linguaggio, la glassa diventa metafora politica, e l’atto performativo si traduce in sabotaggio semiotico.




La figura chiave di questa pratica rimane Noël Godin, una sorta di Arlecchino anarcoide e intellettuale, che colpì – tra gli altri – il filosofo Bernard-Henri Lévy, simbolo della sinistra patinata e spettacolarizzata. Godin teorizzò la “gloup-gloup culture”, una filosofia del ridicolo come forma di resistenza. Per lui, la torta era un’arma poetica contro l’impostura del potere: un gesto di “anarco-surrealismo”, come lo definì, che mira a rompere il ritmo dell’ordine discorsivo istituzionale, creando uno slittamento grottesco tra l’autorità e la buffoneria. Il potente, colpito, perde la sua aura. Non viene solo umiliato: viene riqualificato, risignificato attraverso un cortocircuito semiotico.
In un mondo in cui il potere si rappresenta attraverso l’immagine levigata, il linguaggio sobrio e l’autorità invisibile del denaro e della tecnica, la torta in faccia opera come una bomba estetica: rompe l’illusione dell’intangibilità del potere, riportando il corpo del potente nel dominio del ridicolo. Il volto impiastricciato di panna è il simbolo di un ordine che può essere sovvertito con un semplice gesto clownesco. In questo senso, il lancio della torta non è un atto di vandalismo, ma un dispositivo performativo inscritto nella tradizione della controcultura underground: come le performance dei situazionisti, le incursioni dei dadaisti, o le provocazioni di Fluxus, esso sfida i confini tra arte, politica e comunicazione. È una forma di disobbedienza estetica, dove il teatro del mondo viene momentaneamente sabotato, e il pubblico – sia esso presente o mediato dallo schermo – si trova a ridere non del potente, ma del potere stesso.
In fondo, la torta in faccia è una parabola visiva. Non distrugge nulla, non uccide, non censura: rivela. Come un gesto zen, fa crollare la maschera del potere con una risata. È la rivincita dell’effimero sul titanico, del buffone sull’imperatore, del gesto sulla retorica. In quell’istante di panna e silenzio, il mondo smette di obbedire. E come accade spesso nell’arte sovversiva, è proprio quando il potere viene colto con la bocca aperta, gli occhiali sporchi e l’espressione vacua, che la verità – sublime, impietosa e dolcissima – si rivela in tutto il suo splendore.


