Il Festival Express fu un viaggio in treno attraverso il Canada nell’estate del 1970, ma sarebbe riduttivo chiamarlo semplicemente un festival. Fu piuttosto una visione utopica messa su rotaie, un esperimento sociale in movimento, un sogno che durò pochi giorni e che ancora oggi sembra appartenere a un’altra dimensione. L’idea era venuta a due promoter canadesi, Ken Walker e Thor Eaton, che decisero di portare alcune delle più grandi band del tempo da una città all’altra non stipate in aerei o autobus, ma dentro un lungo treno speciale allestito con vagoni letto, carrozze ristorante e soprattutto un vagone trasformato in sala prove, un santuario mobile dove la musica poteva sgorgare ventiquattro ore su ventiquattro. A bordo salirono i Grateful Dead, i The Band, Janis Joplin con la Full Tilt Boogie Band, i Delaney & Bonnie con Eric Clapton, i Flying Burrito Brothers, Buddy Guy, Ian & Sylvia con i Great Speckled Bird, Tom Rush e altri ancora, un’alleanza di nomi che oggi sembrano scolpiti nella leggenda ma che allora erano carne e ossa, strumenti e sudore, sorrisi e stanchezze mescolate insieme nello stesso convoglio.


Il contesto era quello di un’epoca sospesa tra la fine dell’innocenza e l’inizio del disincanto. Woodstock era passato da un anno appena, il mito dell’utopia collettiva aveva già iniziato a incrinarsi con gli incidenti di Altamont, e in Nord America si respirava un’aria di tensione politica che il Canada condivideva con il vicino americano: la guerra in Vietnam, i movimenti studenteschi, le proteste contro il potere e la polizia. Portare un festival itinerante di più giorni attraverso le province canadesi non era soltanto un’operazione musicale, ma anche un gesto politico e sociale, un tentativo di far viaggiare una comunità insieme alle sue canzoni, alle sue storie e ai suoi ideali. L’atmosfera che si respirava nelle città d’arrivo era contraddittoria: da una parte l’attesa febbrile dei ragazzi che volevano vedere i propri idoli, dall’altra le contestazioni legate al prezzo dei biglietti, giudicato troppo alto per un evento che avrebbe dovuto appartenere al popolo. A Toronto e Winnipeg le proteste furono accese, con manifestanti che chiedevano concerti gratuiti e che a volte sfiorarono lo scontro con la polizia. Molti artisti capirono quelle ragioni e improvvisarono set liberi all’aperto, come fecero i Grateful Dead, nel tentativo di riconciliare lo spirito comunitario con l’inevitabile macchina commerciale. Ma ciò che rende il Festival Express unico non sono tanto i concerti in sé, sebbene straordinari, quanto la vita sul treno. Ogni fermata diventava un capitolo, ma era durante il movimento, nello scorrere dei binari tra le praterie infinite e le montagne canadesi, che accadeva la magia. I musicisti si passavano bottiglie, si scambiavano strumenti, improvvisavano jam senza fine: Janis Joplin che canta nel cuore della notte con Jerry Garcia al banjo e Rick Danko al basso, Buddy Guy che accende il vagone con un blues viscerale, Delaney & Bonnie che tirano fuori gospel e soul come se fossero in chiesa, mentre Clapton accompagna in punta di dita. Era una comunità provvisoria e irripetibile, un laboratorio sonoro in cui generazioni, generi e personalità diverse si incontravano senza gerarchie. Il treno non era soltanto un mezzo di trasporto, era la metafora di un’epoca che cercava ancora una direzione, un senso collettivo, un’armonia che nella società fuori sembrava sempre più difficile da trovare.
I concerti, dal canto loro, furono memorabili. A Toronto, Winnipeg e Calgary il pubblico si accalcava sotto il sole, inebriato dalla possibilità di vedere tanti nomi insieme sullo stesso palco. Janis Joplin, in quella che sarebbe stata una delle sue ultime grandi apparizioni prima della morte, esplose in performance incandescenti, trascinando la folla con una voce che sembrava divorare la vita in ogni nota. I The Band offrirono la loro miscela di rock e radici americane, con Robbie Robertson e Levon Helm che incarnavano un suono al tempo stesso antico e moderno. I Grateful Dead portarono il loro rituale psichedelico, più dilatato e sognante che mai. Eric Clapton, timido e quasi riluttante, si lasciò trascinare dal calore degli altri musicisti, abbandonando la freddezza del virtuosismo per abbracciare lo spirito della condivisione. Ogni concerto era una tappa di un viaggio più grande, una parte di un mosaico che solo chi era presente poteva cogliere nella sua interezza.
Ma il Festival Express viveva anche fuori dai binari e dai palchi, nelle strade e nei muri delle città dove sarebbe approdato.



I poster ufficiali del Festival Express del 1970, oggi oggetti da collezione che galleggiano nelle pieghe della memoria psichedelica, furono concepiti da grafici locali legati alla scena canadese, con uno stile che tradiva l’influenza diretta dei grandi atelier underground di San Francisco e Londra. Guardarli oggi è come avere tra le mani la promessa grafica di un’utopia itinerante: più che pubblicità, erano dichiarazioni d’intenti, piccoli manifesti di controcultura che avrebbero potuto stare accanto alle pareti di un collettivo studentesco o alle bacheche di un campus, più che nelle vetrine dei negozi ufficiali.



Culturalmente, il Festival Express segnava un punto di transizione. Era ancora imbevuto dello spirito comunitario degli anni Sessanta, con la sua idea che la musica potesse unire, curare, creare legami, ma mostrava anche le fratture emergenti: i conflitti sul denaro, le tensioni tra pubblico e organizzatori, la difficoltà di sostenere logisticamente un’utopia quando questa deve fare i conti con biglietti, costi e realtà materiali. Quell’estate del 1970 in Canada non era più l’estate dell’amore, era piuttosto un’eco prolungata, un tentativo di non arrendersi alla disillusione. Sul treno si respirava una libertà assoluta, fuori dal tempo, ma nelle città si percepiva già l’arrivo di un’epoca diversa, più dura, meno ingenua.
Oggi, guardando indietro, il Festival Express appare come una delle ultime vere celebrazioni della musica come comunità nomade e temporanea. Non un raduno statico, ma un viaggio in sé, con i suoi binari che tagliavano il paesaggio canadese come una linea melodica infinita. Fu un’esperienza irripetibile, non replicata e forse non replicabile, perché legata a un momento storico preciso, quando ancora si poteva credere che un treno pieno di musicisti e ragazzi potesse cambiare qualcosa, o almeno offrire l’illusione di un mondo diverso, fatto di note, sorrisi e rotaie che scorrevano sotto i piedi.
