È iniziato come un atto di graffiti in un parco giochi a Minsk.
Si è trasformata in una straordinaria campagna che sfida un regime sempre più totalitario.

 

Mentre la sua famiglia dormiva, l’uomo passava le notti a pianificare il suo progetto. C’erano circa 40 telecamere di sicurezza tra i tre edifici nel centro di Minsk su cui si era concentrato, forse qualcuna di più. Aveva calcolato molto tempo prima i loro punti ciechi, sapeva che c’era solo un posto nel cortile che gl occhi elettronici non riuscivano a vedere. Gli ci è voluto un giorno intero per definire il punto migliore su cui avrebbe operato. L’uomo e il suo gruppo avevano deciso che avrebbero agito di sera, quando le strade sono abbastanza trafficate da non destare sospetti, ma nemmeno non così tanto affollate da richiedere la presenza della polizia.
L’uomo non aveva paura per sé stesso quanto per il resto del gruppo. Sapeva benissimo che se fosse stato catturato, sarebbe stata tutta colpa sua.
Per non trovarsi impreparati ad ogni evenienza, il gruppo aveva predisposto anche alcuni osservatori per controllare i movimenti dei servizi di sicurezza bielorussi, i cosiddetti siloviki, e concordato un piano per creare un diversivo di emergenza in caso di un loro arrivo sul posto.
La mattina del 25 febbraio, l’uomo prese un pezzo di stoffa bianco delle dimensioni di una bandiera e lo dipinse rapidamente. Ci vorranno quattro ore per asciugarsi. Quando fu pronto, lo piegò accuratamente, allineando il tessuto per assicurarsi che ci volesse il minor tempo possibile per dispiegarlo. Attaccò i moschettoni agli angoli e lo mise in una borsa.

 

Mentre si dirigeva verso la recinzione, l’uomo provò solo rabbia – una voce nella sua testa chiedeva con insistenza come fosse possibile che una persona potesse avere paura di compiere un gesto quale quello che avevano programmato.

 

Quando raggiunse il posto, agganciò i moschettoni e spiegò il telo lanciandolo sopra la parte superiore della recinzione. Tutte quelle settimane di pianificazione si erano realizzate così in fretta, in così pochi minuti. Nella luce viola del neon, lo stendardo era etereo e semplice e riportava il logo del loro gruppo, un segno di pace e le parole NO WAR.
Nemmeno un’ora e mezza dopo, giunse sul posto un minibus con i vetri oscurati. Gli agenti in borghese che ne scesero, si precipitarono silenziosi e decisi verso lo striscione e, in altrettanti pochi istanti, lo distrussero. La mattina dopo arrivarono addirittura gli investigatori della sezione locale del Ministero dell’Interno. Raccolsero tutti i filmati di sicurezza degli edifici e dei negozi circostanti e iniziarono a verificarne i contenuti.
L’uomo era abbastanza sicuro di non essere rintracciabile dai video, dopo tutto aveva seguito alla lettera il protocollo attenendosi minuziosamente al percorso che avevano stabilito.
Da più di un anno e mezzo stavano tentando di far emergere il fatto che il loro paese fosse oramai divenuto una dittatura, che la Bielorussia era sotto occupazione, che se il presidente Aleksandr Lukashenko non fosse stato fermato, prima o poi, le cose sarebbero precipitate. Nessuno li aveva ascoltati. C’erano più di mille prigionieri politici detenuti nelle carceri bielorusse e le numerosi condanne per coloro che si opponevano al regime variavano fino ad contare pene detentive della durata di decenni.
Ora che la Russia ha lanciato l’invasione all’Ucraina, Lukashenko ha definitivamente svenduto il proprio paese al Cremlino prestandolo ad essere una gigantesca base militare per la guerra di Putin.
Se allora avessero rovesciato Lukashenko, pensa oggi l’uomo, probabilmente non sarebbe successo niente di tutto questo. Vladimir Putin non avrebbe avuto le risorse strategiche per portare a termine questa guerra: nessun supporto dal fianco settentrionale, nessun aeroporto per il rifornimento di aerei, nessun silos per tenere i missili.

 

Se il mondo pensava che i bielorussi fossero tutti allineati con il piano di Putin, allora era ancora più importante riuscire a dimostrare all’opinione pubblica interna ed esterna che non tutti erano d’accordo, dopo tutto, avevano combattuto contro questo stato di cose autoritario d e filo russo per molto più tempo di quanto la gente pensasse correndo rischi molto più grandi di quanto la gente sapesse.

 

Nelle mattine dei giorni feriali, gli ascensori del condominio di Diana Karankevich erano così affollati di giovani genitori che portavano i loro figli a scuola che spesso era costretta a percorrere le scale. Con i suoi venti piani, il tozzo grattacielo prefabbricato incombeva sui vicini edifici beige dell’era sovietica proprio al centro del quartiere di New Lake fin da quando esso venne iniziato intorno al 2011. Quando venne terminato, moltissime famiglie si trasferirono in questa nuova zona residenziale dove sorgevano i tre edifici identici fra loro situati all’incrocio tra Smorgovsky Tract e Chervyakova Street. Le strade brulicavano continuamente di giovani famiglie della classe medio-alta bielorussa. Il fascino della zona urbana era ovvio: si trovava infatti a soli dieci minuti di auto dal centro di Minsk, con un supermercato dall’altra parte della strada e delle ottime scuole nelle vicinanze. permetteva facilmente di farsi delle belle passeggiate nel parco più grande della capitale bielorussa e ammirare le rive del grande lago che la gente del posto chiamava “il Mare di Minsk”.

 

Diana Karankevich e suo figlio, Tima, nella loro casa di Varsavia. (foto: ©Emile Ducke per il New York Times)

 

Prima del 2020, a causa della lunga sbornia sovietica della Bielorussia o della vita frenetica e assorbita dal telefono, la maggior parte delle persone non conosceva mai i propri vicini. Diana, un’estetista di 30 anni che aveva lavorato in un salone di bellezza al primo piano, era un’eccezione a questa regola. Estroversa e piena di vita, Diana salutava sempre qualcuno. Dal suo appartamento che condivideva con la madre e l’allora figlio di 5 anni, Timofey, che tutti chiamavano Tima, Diana poteva vedere la strada che conduceva al cortile comune dei tre edifici, dove c’era un piccolo parco giochi colorato circondato da panchine. Nel pomeriggio, il flusso di persone si invertiva e gli stessi genitori riportavano a casa i propri figli a volte fermandosi sull’altalena prima di tornare alle proprie abitazioni.
Il 6 agosto 2020, Diana stava riaccompagnando Tima a casa dall’asilo, attraverso le verdeggianti betulle di una piazza più piccola vicina chiamata Peoples’ Friendship Park.

«Perché ci sono così tante persone?» chiese Tima, confuso da tale confusione.
«Perché sono usciti», rispose distrattamente Diana.

Erano trascorsi solo pochi giorni dalle elezioni presidenziali svoltesi nell’agosto 2020. Si trattava di un voto che fino a poco tempo prima Diana e praticamente tutti gli altri in Bielorussia si aspettavano portare alla sesta elezione consecutiva del presidente Aljaksandr Lukashenko che avrebbe vinto grazie a una combinazione di apatia degli elettori, disorganizzazione e divisione delle opposizioni, violente repressione e frodi,  ma per la prima volta nei suoi 26 anni al potere, il solito copione dell’interferenza del regime sulle procedure di voto era andato storto.
Poche settimane prima della tornata elettorale infatti, l’opposizione si era unita attorno a un’unica candidata: Sviatlana Tsikhanouskaya, una casalinga di 39 anni sposata con il famoso video blogger Sjarhej Cichanoŭskij, un ex diplomatico che ha fondato Hi-Tech Park nel 2005, che si era candidata a Presidente dopo che suo marito era stato tolto dalla corsa per accuse che tutti in Bielorussia sapevano essere manovrate dal regime di Lukashenko.
La Tsikhanouskaya, che molti chiamavano semplicemente Sviatlana, aveva raggiunto un livello di popolarità che non si era mai visto da quando lo stesso Lukashenko era salito al potere nel 1994 attraverso le uniche elezioni libere che la Bielorussia avesse mai conosciuto.
Sviatlana aveva indetto un grande raduno presso il Peoples’ Friendship Park, uno dei pochi luoghi in cui erano ancora ammessi raduni politici nella Minsk, ma le autorità cittadine le negarono il permesso perché, questa era la versione ufficiale, era già in programma un concerto musicale per il “Railway Troops Day“, ovvero il giorno in cui si festeggiano le truppe ferroviarie di supporto logistico alle forze armate russe. Per Diana si trattava dell’ennesimo sopruso visto che non c’erano truppe ferroviarie in Bielorussia dal 2006. Era esattamente il tipo di assurdità a cui i bielorussi si erano abituati nel corso degli ultimi decenni.
Diana notò tra l’altro che il concerto non aveva richiamato un grande pubblico e che l’area transennata era popolata solo da alcuni pensionati – tipico delle manifestazioni del regime – che sventolavano la bandiera rossa e verde che Lukashenko aveva resuscitato dai tempi dell’Unione Sovietica. Il resto del parco però, era insolitamente affollato e Diana prese a sperare che forse, altri come lei, stessero aspettando che Sviatlana comparisse e, proprio mentre Diana stava riportando Tima verso casa, sentì levarsi un forte applauso. Forse era davvero arrivata? Diana si avvicinò e riconobbe le note di una canzone che chiunque fosse cresciuto nell’ex Unione Sovietica conosceva a memoria:

I cambiamenti!
È la richiesta dei nostri cuori.
I cambiamenti!
È la richiesta dei nostri occhi.

Si trattava della canzone del 1986 del gruppo rock Kino dal titolo Changes, un famoso inno risuonato in tutta l’Europa orientale che presagiva il crollo dell’Unione Sovietica che era stato vietato da tutte le radio bielorusse durante i passati moti di protesta. La folla allora esultava ancora più forte, incoraggiata dall’entusiasmo reciproco. Diana si spinse in avanti con Tima tra le braccia. I due giovani DJ rimasero con le braccia alzate sopra i loro giradischi in silenzio, senza batter ciglio, mentre la musica esplodeva. Uno aveva le dita alzate a V di vittoria con un pezzo di stoffa bianca – il colore dell’opposizione – avvolto attorno al polso mentre l’altro aveva stretto al pugno un braccialetto bianco. A questo punto i giornalisti presenti nella piazza si fecero subito avanti chiedendo ai due giovani: «Di chi è stata l’idea?» «Non hai paura?» «Non hai paura di perdere il lavoro?»
I DJ ebbero solo il tempo di rispondere che stavano solo facendo ciò che pensavano fosse giusto prima di essere arrestati e portati via dalle forze dell’ordine che presidiavano la zona. Circa una settimana dopo, i residenti della zona si svegliarono come sempre, ma quella mattina notarono la presenza di un grande murale in bianco e nero raffigurante il volto dei DJ con le braccia alzate.

 

6 agosto 2020. I DJ Vladislav Sokolovsky e Kirill Galanov che hanno ispirato il murale nella Square of Change. (foto: ©Nadia Buzhan)

 

31 agosto 2020 The Square of Change a Minsk, Bielorussia. Il murale di protesta apparso nel cortile dopo le contestate elezioni presidenziali. (Foto: ©Yauhen Attsetski)

 

Nelle settimane successive, Diana avrebbe scoperto che era stato tutto un incidente: il murale non doveva essere lì. Alcuni ragazzi volevano attaccarlo al muro dove i DJ suonavano la canzone, ma i poliziotti lo impedirono e, dato che avevano preparato già tutto il materiale, lo incollarono sul primo posto sicuro che trovarono: il parco giochi del loro quartiere.
Ma se era iniziato come un incidente, forse il resto era destino. Se il murale fosse stato collocato altrove, pensò Diana, forse sarebbe stato cancellato molto prima, forse nessuno avrebbe fermato le autorità quando i fossero messe a cancellarlo come era tradizione fare con i tanti altri graffiti rivoluzionari che regolarmente comparivano in città, ma i residenti della nuova Square of Change non erano esattamente del solito avviso. Il murale significava qualcosa per loro e avrebbero fatto di tutto perché significasse qualcosa per l’intera nazione.
Per più di due decenni, i bielorussi avevano vissuto in una situazione di quello che potremmo definire tranquillo autoritarismo. Se le repressioni non li toccavano direttamente, la maggior parte delle persone le tollerava. L’inizio dell’inno nazionale del paese recitava: «Noi bielorussi siamo un popolo pacifico» e un noto proverbio locale usato spesso per descrivere la psicologia dei bielorussi diceva: «la mia casa è di lato». In parole semplici, i bielorussi erano consapevoli che qualunque cosa succedesse al di fuori della loro famiglia non erano affari loro. Ma nel corso del 2020, un paese la cui storia e identità non ha mai interessato molto la maggioranza delle persone che ci vivevano è diventato qualcosa per cui avrebbero sacrificato la propria vita. Prima che la battaglia per il murale diventasse un simbolo della nazione che molti poi avrebbero chiamato Nuova Bielorussia, in quella zona c’erano solamente tre edifici anonimi, un cortile e un parco giochi per bambini con un’altalena e una rotonda.
Nel 1991, l’ anno prima della nascita di Diana, i leader di Bielorussia, Russia e Ucraina hanno negoziato la fine dell’URSS con l’accordo di Belaveža. I connazionali di Diana erano tra i meno interessati all’indipendenza: l’83% dei bielorussi aveva espresso la loro contrarietà all’indipendenza. Tuttavia, solo pochi anni dopo, il loro approccio cambiò radicalmente: il loro stato, la loro ideologia e tutto l’ordine che conoscevano si era dissolto. Come figlia unica nata dopo la Perestrojka, a Diana fu permesso di fare quello che voleva, troppo giovane e troppo amata per rendersi conto del vero prezzo pagato dopo la dissoluzione dell’ex impero sovietico.
Diana è cresciuta alla periferia di Mogilev, una città a circa 120 miglia da Minsk, a est verso il confine russo. Il suo quartiere era diviso: metà era un’area interamente dedicata alle forze di polizia con un’accademia di polizia e alloggi per ufficiali, e l’altra metà, dove viveva Diana, si chiamava Banditski (in italiano Bandito).
I suoi genitori vivevano esattamente in mezzo a questo contesto urbano a cavallo di questo confine: sua madre lavorava per lo Stato, mentre suo padre tentava in ogni modo di sbarcare il lunario trasportando peluche da Smolensk, in Russia, vendendo carne in un mercato all’aperto di Minsk e altre faccende.
La loro famiglia, come la maggior parte delle famiglie bielorusse, parlava russo dato che la Bielorussia non esisteva autonomamente prima di appartenere all’URSS. Aveva fatto parte del Granducato di Lituania – condividendo la sua capitale medievale, scrittori ed eroi storici con la Lituania e la Polonia attuali – prima di essere assorbita dall’Impero Russo. Nel 1918 la Bielorussia fu dichiarato uno stato indipendente che esistette però solo pochi mesi prima di essere inghiottito nel progetto sovietico.
Durante la Seconda Guerra Mondiale, la Bielorussia è stata al centro delle ostilità tra nazisti e sovietici: almeno due milioni di persone della Bielorussia sono state uccise. Minsk è stata bombardata così brutalmente che la Wehrmacht ha dovuto aspettare che gli incendi si placassero per poter entrare in città. A causa dello sterminio, dello sfollamento o della deportazione, alla fine della guerra alla Bielorussia mancava metà della sua popolazione. Sotto Stalin, la Bielorussia conobbe poi una rapida industrializzazione, urbanizzazione e soprattutto russificazione. La capitale fu ricostruita e in seguito insignita dello status di Hero CityCittà degli Eroi – per le sofferenze patite in quella che l’Unione Sovietica chiamò la Grande Guerra Patriottica. Entro la metà degli anni Ottanta, solo un terzo del paese parlava ancora il bielorusso nella propria vita quotidiana.
Dopo la caduta del Muro di Berlino nel 1989, una nuova generazione di leader è sorta nelle ex repubbliche, ma la Bielorussia è rimasta sotto il dominio della vecchia nomenklatura sovietica anche dopo la propria indipendenza. Sebbene la bandiera rossa e verde della Repubblica Socialista Sovietica Bielorussa sia stata scambiata con la bandiera rossa e bianca della Repubblica Nazionale Bielorussa che esisteva per alcuni mesi nel 1918, le istituzioni precedenti diverse dal Partito Comunista rimasero intatte.

 

La leadership della Bielorussia è stata più lenta nell’intraprendere le riforme del mercato rispetto alla Russia o all’Ucraina, le cui tortuose avventure nel capitalismo sfrenato negli anni Novanta i bielorussi hanno guardato con preoccupante trepidazione. Anche in Bielorussia, con le liberalizzazioni dell’economia, è diminuito il tenore di vita mentre la criminalità e la corruzione è aumentata e Diana ricorda ancora sua nonna che le ripeteva spesso che sia pur la vita in Unione Sovietica fosse difficile, almeno era stabile e le persone erano gentili.
Lukashenko ha fatto il suo ingresso proprio in questa palude. Ex capo di una piccola fattoria collettiva, è stato eletto al Parlamento nel 1990 ma è rimasto sconosciuto fino a quando tre anni dopo è diventato capo di una commissione anticorruzione. Aveva 39 anni quando divenne famoso per aver pronunciato un discorso in cui denunciava la corruzione della politica bielorussa, un discorso in cui si presentava come un mix di populismo  qualunquista e bellicosa nostalgia sovietica. Con questo profilo decisionista e popolare, ha sconfitto il primo ministro Vyacheslav Kebich con l’80% dei voti nelle elezioni presidenziali del 1994.
Quasi immediatamente dopo aver preso il potere, Lukashenko iniziò a imporre il suo modello di governo autocratico censurando i media statali; chiudendo l’unica stazione radio indipendente della Bielorussia e diversi giornali. Lukashenko ha poi terminato la sua opera privando dei suoi poteri il Parlamento trasformando di fatto la Bielorussia in un vero e proprio regime. Negli anni ha poi promosso un referendum per riportare in auge i principali simboli nazionali sovietici e ha reso il russo la lingua di stato. Nel 1999, la Bielorussia e la Russia hanno firmato un trattato che le impegnava in futuro non ben precisato a fondersi in uno stato confederale. Era il periodo in cui il presidente russo Boris Eltsin era così malato e impopolare che Lukashenko credeva addirittura di poter essere lui a dirigere l’intera operazione geopolitica.
Mentre la Russia di Vladimir Putin lavorava per riabilitare lo screditato orgoglio russo, la Bielorussia di Lukashenko si adoperava per far rivivere le sue antiche tradizioni sovietiche come quella dei sabati di lavoro non retribuiti chiamati Subbotnik, oppure le festività come il Giorno della Vittoria della Grande Guerra Patriottica il 9 maggio. Entro la fine degli anni Novanta, Lukashenko controllava tutto, dalle autorità esecutive a quelle giudiziarie, la Commissione elettorale, i sindacati e le strutture militari e di polizia arrivando, attraverso un referendum costituzionale del 2004, fino all’abolizione dei limiti del mandato presidenziale.
In un certo senso, l’autocrazia di Lukashenko ha superato persino il modello dell’URSS. La Bielorussia non aveva quindi un vero partito al governo, nessun posto dove fosse permessa una dialettica politica o dar voce a partiti dissidenti. Gran parte dell’economia è rimasta sotto il controllo statale impedendo, diversamente da quanto accadeva in Russia, la nascita delle figura dei cosiddetti oligarchi. Lukashenko ha istituito una speciale forma dei contratti di lavoro a breve termine nel settore statale che è stato utilizzato per prendere di mira chiunque mostrasse idee troppo lontane dal regime. Gli insegnanti di tutti i gradi della scuola statale sono stati quindi posti in silenzio o licenziati. I giornalisti indipendenti incarcerati e, nei casi di avvenuto ripensamento, rilasciati.
Quando Diana era in seconda media, anche lei iniziò a capire la situazione. Ogni anno, la stessa lezione di storia durante il primo giorno di scuola imponeva il rito della reverenza alla bandiera bielorussa e il canto del coro: «Lukashenko, Lukashenko» mentre Diana si cominciava a chiedere se mai in vita sua avrebbe sentito il nome di un altro Presidente.
Quello di Lukashenko era un sistema autoritario che alcuni hanno definito morbido. Se eri un cittadino apolitico, era improbabile che incontrassi il KGB bielorusso o altri sistemi di repressione. C’era poca paura di gravi conseguenze per un cittadino comune che facesse una semplice battuta e la gente poteva permettersi di criticare il presidente all’interno dei numerosi caffè della capitale Minsk. C’erano al tempo anche dei piccoli partiti di opposizione che non impensierivano la fama del Presidente, per questo era permesso loro di affittare spazi per i propri uffici e organizzare piccoli incontri di natura politica. Differentemente da quanto si vedeva in altri stati autoritari, in Bielorussia non esisteva alcun culto della personalità, né ritratti, strade o statue dedicate al leader. Ma soprattutto, per oltre un decennio, Lukashenko è stato davvero popolare. Un imponente apparato di propaganda sosteneva il suo governo, rafforzando la percezione di un patto sociale in cui lo Stato provvedeva al cittadino. I suoi sostenitori lo chiamavano Batka, ovvero Padre.

 

(Foto: ©Shamil Zhumatov via Getty Images)

 

La maggior parte degli esperti concorda sul fatto che avrebbe vinto le elezioni anche senza truccarle anche perché la crescita economica della Bielorussia si stava sviluppando ad un ritmo notevole sostenuta dai soldi guadagnati dallo stato raffinando e rivendendo petrolio e gas russi del tutto esenti da ogni tipo di tassazione. Escludendo i Paesi baltici, la Bielorussia era l’ex repubblica sovietica con il più alto tenore di vita come dimostra il PIL pro capite che era quasi il doppio di quello della vicina Ucraina e l’aspettativa di vita giunta oramai a superare quella della Federazione Russa.
Per molto tempo i bielorussi hanno creduto nel loro sistema giudiziario anche se tutti sapevano che c’erano due binari paralleli: casi che coinvolgevano il governo e poi tutto il resto. Gli avvocati indipendenti spesso hanno sottolineato le condanne di attivisti e politici contrari al Presidente e gruppi internazionali per i diritti umani hanno criticato verdetti motivati politicamente.
L’opposizione stessa non era molto popolare, coinvolta anch’essa in scandali interni e macchiata da componenti fortemente nazionaliste se non addirittura fasciste. Ad ogni modo, come detto, si trattava di un ‘esigua minoranza che non creava particolari problemi al regime.
Quando è arrivata all’Università a Minsk, Diana si è resa conto di essere stata ingannata per anni dalla propaganda della televisione di stato. Nel 2011, l’inflazione galoppante ha colpito il paese portando con sé una forte svalutazione della valuta che ha determinato la scelta del regime di imporre controlli sui prezzi di beni di prima necessità e cibo. La gente a Minsk ha cominciato a radunarsi mettendo in atto la disobbedienza civile. Diana era curiosa e scese in piazza per vedere di persona come l’assemblea radunatasi fosse assolutamente pacifica. Si rese conto allora di come quelle persone non assomigliassero ai violenti teppisti che venivano rappresentati in TV.
Le autorità risposero con la loro solita farsa, vietando cioè gli applausi a meno che non fossero diretti ai veterani di guerra o agli esponenti del potere e vietando alle persone di comporre gruppi per le strade della città.
Diana si è laureata nel 2014, ha trovato lavoro come ingegnere di processo presso l Minsk Tractor Works, uno dei più grandi produttori di veicoli agricoli della Bielorussia. Ogni mattina al lavoro, Diana apriva Tut.by, il portale di notizie più popolare del paese, e leggeva i titoli in uno dei tanti caffè. Non le era permesso accedere ad altri media indipendenti dal suo Computer aziendale.
Il portale è stato avviato nel 2000 dall’uomo d’affari e politico Yuri Zisser, chiamato lo Steve Jobs della Bielorussia,  eletto dal 62% della popolazione composto da persone di tutto lo spettro politico. Il regime aveva investito molto nelle infrastrutture delle telecomunicazioni e ne aveva lasciate la maggior parte in pace, concentrando gli sforzi sulla propaganda televisiva.
L’anno in cui Diana ha iniziato il suo lavoro, gli ucraini organizzarono proteste di massa contro la decisione del governo del presidente Viktor Yanukovich piegatosi alle pressioni russe per interrompere gli accordi di allineamento economico con l’Unione Europea. Approfittando del caos venutosi a creare, la Russia decise unilateralmente di annettersi la penisola della Crimea portando allo scoppio di violenti scontri con i separatisti del Donbass sostenuti dalla Russia nell’Ucraina orientale. A Minsk si seguiva con attenzione e sgomento ciò che accadeva nella vicina Ucraina con le persone incollate ai media per conoscere gli sviluppi.
Lukashenko, che basava la sua politica estera sul ricercare il continuo scontro fra la Russia e l’Europa, non ha riconosciuto l’annessione della Crimea da parte della Russia e si è sempre rifiutato di unirsi al boicottaggio dell’Occidente da parte del Cremlino. Dall’elezione di Putin nel 2000 infatti, le relazioni tra i due presidenti erano state sempre molto tese. La Russia sovvenzionava l’economia bielorussa e favoriva il mantenimento di Lukashenko al potere perché la Bielorussia era un importante paese di transito per le esportazioni di gas russe in Europa e Lukashenko sapeva bene che Putin era restio a vedere l’instabilità politica lungo i propri confini.
Per anni Putin aveva spinto per stringere legami  economici e militari più stretti con la Bielorussia, ma Lukashenko si è da sempre opposto per mantenersi le mani libere anche per accordi con il versante occidentale ovvero l’Europa. Sebbene la Bielorussia abbia accettato nel 2014 di aderire alla versione russa dell’UE, l’Unione economica eurasiatica, Lukashenko ha bloccato più volte le richieste russe di costruire una nuova base aerea in Bielorussia.
Durante l’invasione dell’Ucraina nel 2014, Lukashenko pensava che un’eccessiva dipendenza dal Cremlino avrebbe potuto portare la Bielorussia alla stessa sorte e quindi, come detto, flirtava con l’Unione Europea e gli Stati Uniti avviando timide liberalizzazioni politiche e economiche, proponendo alla comunità internazionale la Bielorussia come una Svizzera slava, un paese neutrale in cui si potevano tenere negoziati e colloqui di pace, come gli accordi di Minsk per un cessate il fuoco nell’Ucraina orientale. La maggior parte dei bielorussi era d’accordo visto che non volevano far parte dell’UE, né volevano fondersi con la Russia. L’equidistanza andava bene ai bielorussi.
Lukashenko iniziò allora a favorire sempre più le espressioni dell’identità nazionale bielorussa, incoraggiando la lingua bielorussa, elementi della storia pre-sovietica e simboli nazionali come i tradizionali ricami sulle divise della nazionale di calcio e, per la prima volta dagli anni Novanta, tenendo i suoi comizi pubblici in bielorusso.
Nel 2018, dopo un congedo di maternità di tre anni sovvenzionato dallo stato, Diana si trovò nella necessità di tornare a lavoro. Aveva divorziato dal marito da due anni e mezzo e le fu diagnosticato il morbo di Crohn poco dopo la nascita di Tima. Aveva bisogno di un lavoro che le offrisse permessi retribuiti e congedi per malattia.
La prima vacanza che fece con suo figlio Tima fu a Cipro e proprio mentre era sul balcone del suo hotel e Tima dormiva, lesse un articolo su Tut.by sullo stipendio medio in Bielorussia rimanendo scioccata nell’apprendere che era tre volte quello che guadagnava lei come ingegnere nella fabbrica statale. Decise allora di provare ad aprire una propria attività di estetista specializzandosi nella manicure.
Nel marzo 2020, con l’arrivo del Covid, Lukashenko liquidò il virus come psicosi che poteva essere curata con un bicchierino di vodka, un giro in trattore o una bella sauna. Non fu istituito nessun blocco e i cittadini sono stati lasciati a sé stessi. In breve tempo gli ospedali cominciarono a finire le forniture di medicinali, i tassi di infezione aumentavano, i medici venivano messi a tacere per aver detto la verità e le morti venivano insabbiate.
Con il Covid il regime ha intuito che qualcosa non andava, che il contratto sociale su cui Lukashenko aveva fatto affidamento per così tanto tempo si stava logorando.
Dopo che le elezioni erano state programmate per agosto, una manciata di nuovi candidati senza esperienza politica ha annunciato che si sarebbero candidati. Il marito di Sviatlana, Sjarhej, ha viaggiato per il Paese parlando con cittadini comuni, documentando la povertà e mettendo in luce i fallimenti del regime. Diana lo trovava un populista di un livello non proprio adeguato a guidare lo Stati e, come molti giovani professionisti, preferiva Viktor Babariko, presidente della Belgazprombank.
Nessuno capiva da dove davvero provenissero questi nuovi candidati. Giravano voci secondo cui si trattava di infiltrati russi inviati da Mosca per rimuovere il ribelle alleato di Putin dopo che Lukashenko aveva preso le distanze dalla Russia in seguito all’annessione della Crimea. Il Cremlino infatti aveva avviato ritorsioni economiche contro la Bielorussia aumentando il prezzo del petrolio. Lukashenko sempre più spesso si lamentava pubblicamente del fatto che il Cremlino stesse cercando di costringere Minsk a un’unione con la Russia contribuendo all’ulteriore deterioramento delle relazioni.
Quando iniziò la campagna presidenziale, Lukashenko accusò apertamente di ingerenza gli oligarchi russi arrivando ad arrestare 33 persone legate al Cremlino che secondo il Presidente avevano il compito di destituirlo con la forza dal suo incarico. In seguito si è scoperto che questi oscuri personaggi appartenevano al temuto Gruppo Wagner.
A metà luglio tutti i candidati erano stati eliminati dalla competizione elettorale: due erano in prigione e uno era fuggito dal paese. Questo favorì l’ascesa di Sviatlana che iniziò a ripetere ai media interni ed esterni tre specifiche richieste: il rilascio di prigionieri politici, la riduzione dell’accentramento dei poteri al Presidente e soprattutto libere elezioni.

 

Svjatlana Cichanoŭskaja (Foto: ©Parlamento Europeo)

 

Carismatica e seria, Sviatlana era adorata per la sua immagine di moglie di un Decabrista, donne che avevano rinunciato alla propria vita e seguito i loro mariti in esilio in Siberia.
Il giorno del voto, Diana ha aspettato in fila per ore al suo seggio elettorale. Il canale Telegram di Sviatlana aveva chiesto ai sostenitori di recarsi alle urne con un nastro bianco in modo che gli osservatori indipendenti potessero tenerne traccia. Intorno a lei, tutti indossavano braccialetti bianchi, alcuni fatti di camicie strappate, altri persino con garze mediche. Una piattaforma chiamata Golos, una parola che significa sia voto che voce, ha chiesto a tutti di scattare foto di entrambi i lati della scheda elettorale e poi caricarle sulla piattaforma, il che avrebbe fornito un conteggio alternativo dei voti. Anche Diana ha scattato foto della sua scheda elettorale come richiesto da Golos.
Il giorno successivo la Commissione elettorale centrale ha annunciato i risultati preliminari sostenendo che Lukashenko avesse vinto con oltre l’80% dei voti. Lo stesso sito Golos pubblicò un report in cui si sosteneva che Sviatlana avesse invece ottenuto almeno il 56% dei voti. Se i risultati fossero stati meno sbilanciati, forse non sarebbe successo nulla, ma di fronte ad una così plateale rimozione del diritto di voto, esplose un generale sentimento di indignazione.
Per i tre giorni seguenti le votazioni, gli ampi viali e gli ordinati parchi del centro di Minsk si riempirono di manifestanti, la maggior parte dei quali si era avventurata in strada per la prima volta. Proprio i più giovani furono accolti dalla polizia antisommossa, dai gas lacrimogeni e dalle granate. Le autorità interruppero il funzionamento di Internet, l’unico strumento in grado di far circolare le informazioni e far capire cosa stava succedendo.

 

Manifestazione di protesta contro Lukashenko, 16 agosto 2020. Minsk, Bielorussia (Foto: ©Homoatrox)

 

Manifestazione di protesta contro Lukashenko, 16 agosto 2020. Minsk, Bielorussia (Foto: ©Homoatrox)

 

Quasi 7.000 manifestanti sono stati arrestati in quei quattro giorni. Centinaia sono stati picchiati e torturati. Lukashenko ha definito i manifestanti “tossicodipendenti” e “prostitute”. Human Rights Watch ha documentato situazioni di torture, scosse elettriche e minacce di stupro. L’ONG ha documentato di ossa e denti rotti, abrasioni cutanee, ustioni elettriche, danni ai reni e lesioni cerebrali traumatiche. Era un livello di brutalità senza precedenti da parte del regime. Il quarto giorno centinaia di donne che portavano fiori hanno formato una catena umana all’interno del mercato centrale di Minsk, distorcendo a loro favore la misoginia slava. Le forze dell’ordine a quel punto non sapevano cosa fare: potevano picchiare le donne o arrestarle o cosa?
Nei giorni successivi Diana si unì a un piccolo gruppo di manifestanti e a metà agosto, come detto in precedenza, i condomini della zona residenziale dove viveva Diana si sono svegliati con il murale dei due DJ.

 

(Foto: ©Yauhen Attsetski)

 

Entro la fine di agosto, il potere di Lukashenko sembrava essere in bilico. Centinaia di migliaia di cittadini si erano uniti alle marce domenicali che si organizzavano oramai ogni settimana chiedendo il riconteggio dei voti. Le fabbriche statali erano in sciopero. Molti poliziotti riconsegnavano pubblicamente i loro distintivi. I giornalisti della TV di Stato si dimettevano o addirittura mandavano in onda servizi dedicati alle proteste. Addirittura, durante una visita allo stabilimento di trattori di Minsk, Lukashenko venne accolto con sonori fischi e grida di «Vattene!» Nel frattempo, i residenti del quartiere di Diana cucivano gigantesche bandiere bianche e rosse e le appendevano ai balconi fino a che non giungevano i camion dei pompieri per toglierli.
Ma era il murale la vera sfida del quartiere. Ogni volta che il comune dipingeva il murale, i residenti tornavano indietro per pulire la vernice. Ogni volta che tagliavano i nastri sul recinto, il gruppo li rimetteva in piedi. Un giorno di settembre, i residenti hanno dovuto lavare via la vernice due volte in un giorno.

 

(Foto: ©Yauhen Attsetski)

 

La gente intanto aveva iniziato a fare pellegrinaggi verso la Piazza, fotografandosi sullo sfondo dell’ormai famoso dipinto dei due DJ. I visitatori  lasciavano regali e ricordi come caramelle, miele, biscotti e altri oggetti a supporto di quella che era divenuta una vera e propria battaglia giornaliera. Venivano perfino da altre parti della Bielorussia, addirittura da Mosca e da Vilnius in Lettonia.
La piazza divenne un punto nodale delle manifestazioni con un suo proprio canale Telegram, un account Instagram e una pagina Facebook. C’erano felpe e adesivi di Square of Change. Decine di residenti si radunavano lì ogni sera. A differenza delle strade di Minsk o delle marce domenicali settimanali in tutta la città, dove le persone continuavano a essere detenute, il cortile si sentiva al sicuro, come un’isola di libertà dove i residenti potevano creare una comunità libera troppo a lungo negata.
Un giorno, a metà settembre, le autorità sono tornate ancora nella piazza portando via i dimostranti che, come consuetudine, presidiavano il murale e che nei giorni successivi furono incriminati con l’accusa di detenere nelle proprie abitazioni sostanze chimiche e piani per omicidi politici. Uno dei principali accusati era Stepan Latypov, amico di Diana e organizzatore delle attività di Square of Change.

 

Stepan Latypov durante l’arresto. (Foto: ©Valery Sharifulin/TASS)

 

Tutti i residenti erano increduli ma decisero di stampare decine di maschere con la faccia di Stepan e manifestare lo stesso al grido: «Siamo tutti Stepan Latypov», hanno postato su Instagram.
Ma l’ottimismo iniziale stava svanendo. Le marce pacifiche si stavano riducendo man mano che la partecipazione diventava più pericolosa. Durante le manifestazioni post-elettorali, la stessa Sviatlana era stata detenuta e costretta poi all’esilio in Lituania. Da Vilnius, aveva iniziato a definirsi la “leader della Bielorussia democratica”. Un quasi-stato si era ricostituito attorno a lei mentre altre figure politiche, operatori di ONG e attivisti fuggivano o venivano cacciati dal paese verso Ucraina, Georgia, Lituania o Polonia. Coloro che non erano fuggiti furono arrestati portando alla totale assenza di leader della protesta a Minsk.
Nel frattempo Vladimir Putin si era congratulato pubblicamente con Lukashenko per la sua vittoria alle discusse elezioni e a metà settembre, Lukashenko e Putin si incontrarono a Sochi dove il Cremlino concesse un prestito di 1,5 miliardi di dollari alla Bielorussia consolidando così il sostegno al regime di Lukashenko. Lukashenko, dal canto suo, sempre più in difficoltà, estremizzò il suo operato intervenendo e rimescolando i servizi di sicurezza, promuovendo i personaggi più radicali del suo. partito a figure di prima importanza e iniziando rapidamente a fare sempre più aperture alla Russia come dimostra il rilascio di numerosi componenti del gruppo Wagner.
Dovremmo aprire una nuova chat segreta , si sussurrava fra i residenti del parco giochi, ma nessuno voleva essere l’amministratore; era troppo pericoloso. «Lo farò io» decise allora Diana. Era stanca di sentire tutti ripetere la stessa cosa senza agire. La chat segreta si è rapidamente gonfiata di appassionati. Diana pensava che stesse diventando troppo grande per essere al sicuro; doveva potersi fidare di tutti nella chat. Ha cercato di incontrare tutti di persona, al parco giochi o durante una passeggiata. Voleva scoprire chi erano, cosa volevano ottenere e quali abilità avevano per aiutare la Piazza. Quando fu fatto, rimasero circa 60 persone.
Ogni domenica alle 7 del mattino, Diana scriveva le istruzioni. Aveva anche assegnato nella chat un numero a tutti e, qualunque fosse la domanda che poneva, ogni persona doveva rispondere con il proprio numero assegnato. Se qualcuno ha risposto con un altro numero o non ha risposto affatto, Diana presumeva che quella persona fosse stata compromessa in qualche modo e l’avrebbe rimossa dalla chat di gruppo. Ogni sera prima di mezzanotte, Diana chiedeva a tutti di fare il check-in con i propri numeri. Su un pezzo di carta nascosto nel suo appartamento, aveva anche organizzato un registro dei nomi degli iscritti. Ogni notte lo faceva a pezzetti.
Nella chat, hanno sempre lavorato come in una democrazia, discutendo azioni future, votando idee. Diana era una leader naturale, severa quando doveva esserlo, non aveva paura di esprimere la sua opinione, anche se quasi tutti nel gruppo erano più grandi di lei.
A ottobre, tre mesi dopo le elezioni, erano state detenute 16.000 persone, fra questi c’erano circa 10o prigionieri politici.

 

(Foto: ©Yauhen Attsetski)

 

La Square of Change ha continuato però a fiorire con i membri del gruppo che si riunivano lì ogni sera per organizzare concerti e spettacoli quasi ogni notte. Una di queste sere, tutti i residenti si sono riuniti per guardare un video dei due DJ da cui era iniziato tutto mentre ringraziavano la piazza. I due, dopo l’arresto e una condanna a 10 giorni di carcere, erano fuggiti dal paese.
Un’altra notte, Diana ha ricevuto addirittura la chiamata di Sviatlana Tsikhanouskaya mentre, a partire da novembre, i residenti avevano dato il via alle cosiddette “Fiere del sabato”, un ritrovo in cui tutti portavano cibo, oggetti come saponi fatti a mano e opere d’arte per i bambini.
Nel suo appartamento Diana teneva sempre pronta una borsa che lei chiamava “la valigia antipanico”, un repertorio di oggetti di prima necessità da portare a coloro che eventualmente fossero stati stati arrestati in uno dei tanti eventi organizzati dalla Square of Change mentre
quando qualcuno veniva rilasciato, il gruppo salutava il suo ritorno a casa con una torta fatta dal pasticcere del quartiere con una scritta che diceva: «Eroe della Piazza del Cambiamento».
Negli ultimi anni le attività sono continuate sia pur sempre sotto il pericolo di ritorsioni più o meno ufficiali da parte delle forze di polizia o, ancora peggio, di individui mascherati di cui non si è mai riusciti a conoscere né l’identità, né il mandante.
Non esiste però solo il lato romantico della ribellione di Square of Change visto che, come riporta il sito de La Repubblica del 6 giugno 2021, proprio l’attivista Stepan Latypov, arrestato nella piazza nel pieno della repressione, ha tentato il suicidio nell’aula del tribunale dove si svolgeva il suo processo. Il fatto è stato riportato da diversi media russi e bielorussi. Da diverse fonti si legge che Latypov ha tirato fuori un oggetto, forse una penna, da una cartella con dei documenti e con questa si è pugnalato alla gola. Le guardie non sono state subito in grado di aprire la porta della gabbia, dov’era rinchiuso, poiché non avevano le chiavi. Latypov è stato poi portato in ospedale in ambulanza.

 

Stepan Latypov (Foto: ©France-Presse)

 


 

Questo articolo riproduce in parte l’articolo dal titolo “The Battle for the Mural and the Future of Belarus” di Sarah A. Topol per il sito del New York Times del 30 marzo 2022 che potete trovare QUA.