Eccoci qua con una nuova puntata di DISPACCI, la serie di conversazioni su informazione, comunicazione e editoria con alcuni inviati italiani che si trovano sul fronte del conflitto ucraino.
Oggi parleremo con Alfredo Bosco, fotografo freelance e collaboratore della Luz Photo Agency di Milano. Co-fondatore ed editore di MiCiAp (MilanoCittàAperta), rivista online di fotografia urbana e da qualche settimana in libreria con il suo libro fotografico sulla realtà sociale del Messico dal titolo Estado de Guerrero pubblicato dalla casa editrice Seipersei.
Il suo lavoro è apparso in pubblicazioni italiane, francesi e britanniche.

 

Alfredo Bosco in collegamento dall’Ucraina 


La vita, come si dice spesso, è un groviglio di fili e non sai mai dove e come si formino i nodi. Sicuramente uno di questi è quello che mi lega a Alfredo Bosco, fotografo che da anni si è spostato a Milano ma che proviene dal mio Comune, quella Santa Croce sull’Arno che spesso, in silenzio, sforna figure di primo piano nel panorama culturale italiano.
La nostra chiacchierata è una delle più complicate che ho fatto visto che Alfredo si muove continuamente in Ucraina, sempre alla ricerca delle zone più calde del fronte ma, anche in questo caso, ce l’abbiamo fatta e, oltre a ricevere le sue risposte, abbiamo anche ottenuto alcuni suoi preziosi scatti dalle zone di conflitto.

Ciao Alfredo,
Per prima cosa, come di consueto, desidero davvero ringraziarti per aver accettato la mia intervista.
La prima domanda che ti faccio è se ci puoi descrivere il momento in cui hai capito che volevi fare proprio questo mestiere? Cosa pensi ti abbia spinto in questa direzione? 

Sicuramente è stato quando, insieme al mio amico e collega Mattia Velati, siamo andati ad Haiti per il disastro del terremoto che ha colpito la capitale Port au Prince. La documentazione di certi fenomeni che sconvolgono la vita quotidiana delle persone costrette poi a convivere con una realtà che è totalmente diversa mi interessa molto. Ci sono varie aree di crisi, anche una questione economica può esserlo. Io infatti non mi ritengo un reporter di guerra, ma preferisco definire quello che faccio: reporter di aree di crisi. Poi per motivi vari ho smesso con questo mestiere e mi sono occupato di moda ed eventi ed ho ripreso questo settore nel 2014 con il conflitto in Donbass.

 

Nel pianeta esistono numerosi conflitti e scenari di pericolo, ognuno con delle sue specificità locali, storiche e culturali. Quali sono i criteri con cui scegli il contesto in cui vuoi andare a lavorare, come ti prepari da un punto di vista culturale e che tipo di specificità stai riscontrando in Ucraina?

Leggo molto testate che si occupano di geopolitica. Lì dalle analisi trovo gli argomenti che secondo me sono di valore ed è necessaria una documentazione visiva. Poi ovviamente c’è anche lo scambio tra colleghi ad esempio la guerra al narcotraffico dello stato di Guerrero in Messico ho iniziata a documentarla perché un giornalista francese me ne parlava e mi ha proposto di andare con lui. Da lì ci si documenta magari sul campo e poi si confronta la nostra esperienza con letture varie quali articoli passati, approfondimenti e saggi. Qui in Ucraina ho avuto un’esperienza lunga di 4 anni di lavoro, e mi confronto spesso con i giornalisti locali che magari hanno un taglio delle informazioni più adatto per quello che sto cercando.

 

Ukraine; Kharkiv; 2022
Firemen at work in Kharkiv. The building was hit by the Russian artillery. More than 160 grads were launched on the oblast of Kharkiv during the day.
©Alfredo Bosco

Puoi descriverci i giorni prima di ogni tua partenza? L’organizzazione del viaggio, la scelta di cosa portare con te, gli oggetti a cui non rinunceresti mai, la preparazione dei contatti sul posto etc.?

Oltre l’attrezzatura necessaria non ho cose particolari a cui non posso rinunciare. Ogni territorio ha le sue richieste. Si fanno molte chiamate, si deve capire quali accrediti ottenere oltre il visto, si deve valutare la sicurezza e predisporre il proprio lavoro sentendo quali testate possono essere interessate. La parte della pianificazione è fondamentale, ma c’è sempre poi il riscontro sul campo che cambia le cose e bisogna esserne consapevoli. I contatti si cercano da prima, ma molti si ottengono proprio con il lavoro quotidiano quando si è oramai arrivati sul posto.

 

Come si riesce a tenere a bada la sfera emotiva quando ci si trova di fronte a scenari di pericolo o di distruzione per continuare a fare al meglio il proprio lavoro di cronista degli eventi senza farsi prendere dall’istintiva voglia di intervenire o dal senso di impotenza di fronte a violenze e uccisioni?

Qui sono netto. Noi lavoriamo su territori dove lavorano anche operatori umanitari. Spetta a loro l’intervento sulle persone, noi dobbiamo documentare. L’impotenza si sente sempre, ma come un chirurgo che opera su un paziente, la cosa che conta è il risultato positivo non il coinvolgimento nell’operazione.

 

Quali sono le maggiori soddisfazioni e le peggiori delusioni, il momento più bello e quello più brutto, che proprio questo lavoro ti ha fatto vivere e che diversamente non credi avresti mai potuto o dovuto affrontare?

Soddisfazioni ne ho avute poche e non me le godo neanche. Non è un premio o una pubblicazione che mi fa capire che è andato bene il lavoro che ho fatto. Sicuramente preferisco la stima dei colleghi consapevoli che lavoro molto per fare il meglio possibile. Vivo molti momenti brutti, come il non riuscire a far capire l’importanza delle storie che raccolgo e penso alla sofferenza di chi ho incontrato che magari finisce dimenticato perché la sua situazione non è considerata di interesse.

 

Ukraine; Kiev; 2022
Ukrainian troops help civilians cross the shelled bridge connecting the town of Irpin and Kiev.
For days, many civilians have crossed the river hole to reach the safer city of Kiev.
©Alfredo Bosco

Che valore attribuisci tu al ruolo del giornalista freelance all’interno delle dinamiche del mondo dell’informazione?

Fondamentale, purtroppo. Lavoriamo con richieste altissime, per cifre che diventano ogni anno sempre più basse. Siamo le persone che sono a più contatto diretto con i fatti. Mi fa sempre ridere amaramente che televisioni che hanno mezzi incredibili rimangono poi in hotel a fare le dirette mentre molti di noi si dividono una vecchia macchina per arrivare dove stanno accadendo le cose importanti. Nessuno vuole farci un contratto se non per avere l’esclusività del materiale, per non prendersi rischi, poi ci chiedono in continuazione dove siamo, se abbiamo video oltre che le fotografie, ed eventualmente sostituire chi doveva essere lì ma è lontano centinaia di chilometri.

 

Da anni mi occupo di editoria indipendente e delle forme più libere di comunicazione. Quello del freelance credo sia un lavoro che rientra appieno in questo ambito ma vorrei chiederti quanto, alla fine, il tuo lavoro viene mediato e filtrato dai distributori finali (TV, stampe, radio e Web) e quanto invece riesce ad emergere nelle sue forme originarie e quindi davvero “tue” ?

C’è sempre un compromesso, già un/una photoeditor di una rivista deve adattare il tuo materiale con la linea editoriale, oppure semplicemente l’impaginato può modificare la struttura del tuo lavoro. Anche su Instagram alcune immagini magari risultano più efficaci di altre. Ci sono fotografi che pubblicano pochissimo ma su IG hanno apprezzamenti incredibili, come altri che si ritrovano esattamente nella situazione opposta. Gli spazi dove si riesce a costruire di più un proprio percorso professionale magari sono le mostre fotografiche ma anche lì ci sono fattori come: la curatela, lo spazio, le luci, il budget etc… etc…
Ogni volta che le tue immagini o il tuo lavoro fotografico viene distribuito o esposto “subisce” quindi un filtro, però un autore ha infatti il dovere di capire come gestire questa traduzione del proprio progetto.

 

Si è autore e le immagini sono tue fino a che vengono viste, quindi la responsabilità è l’unica cosa che rimane profondamente tua.

Il termine greco utilizzato per indicare la verità era alétheia, la cui etimologia significa non nascondimento. Emile Cioran una volta ha detto che: «Alcuni cercano la gloria, altri la verità. Io mi permetto di schierarmi fra questi ultimi. Un compito irrealizzabile ha più fascino di una meta accessibile.» Pensi che sia davvero irrealizzabile cercare la verità e soprattutto qual’è il tuo rapporto con il concetto stesso di verità?

Non credere mai ad un fotografo. Nell’ambiente sento spesso questa battuta. Quando sento parlare di verità sono molto sarcastico. Ognuno di noi ha una sua visione delle cose, se poi si aggiunge un’impronta autoriale e anche un mezzo come una macchina fotografica allora di quale verità stiamo parlando? Chi vuole mostrare la verità solitamente è un propagandista, e spesso e volentieri lo fa per interesse personale. Noi che documentiamo invece dobbiamo registrare, il risultato finale credo vada dato in consegna al pubblico che può giudicare o meno a seconda della sua sensibilità se trova il racconto veritiero o meno. Io raccomando sempre quando una persona conosce un mio lavoro di vedere se altri hanno svolto un progetto sullo stesso tema perché la verità pura non si ottiene, ma sicuramente la pluralità di fonti aiuta a comprendere meglio la storia trattata di un evento.

 

Quella in Ucraina è per mille ragioni la prima guerra trasmessa senza sosta da tutti i media con la presenza sul campo di un notevole numero di giornalisti da tutto il mondo. Molti studiosi parlano a questo proposito di un potenziale rischio di assuefazione a certe immagini trasmesse senza pausa da tutti i media. Quali sono secondo te i risultati di un continuo flusso di informazioni di questo tipo sull’opinione pubblica?

Il rischio c’è, però poi c’è il percorso storico, Walter Benjamin era chiaro su questo concetto. Lasciandoci alle spalle le macerie rimarrà quello che storicamente sarà la documentazione: aiuterà a riflettere, ad analizzare l’accaduto e magari ad evitare future tragedie. Se ripensiamo alle immagini di Hiroshima e Nagasaki la paura del nucleare ci ha fortunatamente portato ad evitare l’olocausto della razza umana. Ugualmente le immagini di Srebrenica ci hanno sconvolto a tal punto che l’idea di un genocidio etnico per noi è un orrore irripetibile. Almeno in Europa.
Le immagini più importanti emergeranno in futuro, adesso c’è la notizia con il suo flusso che è amplificato perché i medium si sono moltiplicati. Prima la tv, la radio e la stampa, adesso il web con i suoi Social Network, i podcast, le dirette sui vari canali satellitari, una stessa immagine viene ripetuta migliaia di volte, una stessa tragedia se fotografata da pochi reporter fino a venti anni fa ora è immortalata da cento colleghi. Ma la richiesta di queste immagini è altissima, proprio per questo c’è una grande offerta, i primi “colpevoli” siamo noi spettatori che le chiediamo per poi dire che è troppo.

 

Storicamente, dalla stampa clandestina della Seconda Guerra Mondiale, alle riviste underground degli anni Sessanta e le radio libere dei Settanta, fino a Indymedia e l’etica Hacker, il vasto mondo dell’editoria (più in generale possiamo dire della comunicazione) indipendente si è sempre poggiato sulla centralità della libertà espressiva vista come simbolo di una scelta in tutto e per tutto politica. Dove pensi si possa trovare oggi, all’interno del mondo dell’informazione, l’eredità di questo approccio e, se ritieni che sia ancora vivo questo spirito, pensi che possa avere ancora un ruolo nel trasformare le società? (Perché?)

Secondo me nella memetica. Il linguaggio dei meme proprio perché non c’è mai l’ossessione dell’autore è incredibilmente libero. Segno e significante cambiano in continuazione. Possono essere strumenti di propaganda, vedi Pepe the Frog, oppure picconi che frantumano un pensiero comune. Osservo molto questo neolinguaggio, e proprio perché si basa su immagini, va aldilà della lingua naturale ed è comprensibile dalla fonte dove si è creato fino al cellulare o computer di casa nostra. Poi ci sono i fumettisti indipendenti, che non hanno senso della censura, e ammiro molto proprio perché non vogliono rientrare in nessuna industria editoriale che sarebbe comunque un compromesso tra le loro intenzionalità e l’opera che creano. Ma una libertà condizionata può comunque essere un progresso, è l’intenzionalità che conta alla fine, quindi anche nell’editoria dei compromessi possiamo ottenere voci e immagini oggettive e libere di essere giudicate.

 

Ukraine; Kharkiv; 2022
Objects amidst the rubble of a building repeatedly hit by Russian army artillery on the outskirts of Kharkiv.
©Alfredo Bosco