Come confermato dal suo gallerista, il 9 Agosto 2023 è morto a Liverpool all’età di 76 anni Jamie Reid, l’artista anarchico noto soprattutto per aver creato le copertine dei dischi più famosi dei Sex Pistols.
Reid ha disegnato l’artwork di pietre miliari della discografia punk come God Save the Queen e Anarchy in the U.K. La prima divenne una delle immagini più iconiche dell’epoca, con scritte incollate sopra un deturpato ritratto fotografico della regina Elisabetta II opera di Cecil Beaton posto sopra la bandiera dell’Union Jack.
Secondo il V&A Museum, che acquistò l’archivio di Reid nel 1981, gli stampatori della copertina erano così offesi dall’immagine che inizialmente si rifiutarono di stamparla.
Il successo della grafica prodotta da Reid si è rivelata così virale che nel 2001 è stata nominata la più importante copertina musicale di tutti i tempi dalla rivista Q e dal The Observer come “The single most iconic image of the punk rock era”.
Reid si permette di sfigurare il volto della regina, strappandole gli occhi e la bocca, i quali vengono sostituiti dal titolo del singolo e dal nome della band, ottenuti sempre attraverso la tecnica del décollage. L’atto della rimozione degli occhi del ritratto in bianco e nero della regina contiene un ulteriore simbolismo, come se Elisabetta avesse intenzionalmente deciso di non vedere, ignorando in questo modo le condizioni del popolo inglese, insomma qualcuno si ricorderà la collega di Elisabetta II quando ebbe a dire “Se non hanno più pane, che mangino brioche”…
Nato a Londra nel 1947, figlio di un redattore di un giornale liberale, Reid studia prima alla Wimbledon Art School e successivamente alla Croydon Art School, dove conosce il futuro manager dei Sex Pistols Malcolm McLaren. Nel 1970 decide di abbandonare il college per fondare il giornale politico Suburban Press, di cui in futuro parleremo in un post dedicato, realizzato in una tipografia anarchica autogestita a Croydon. È qua che Reid inizia a mettere a fuoco quello che diverrà il suo caratteristico stile dirompente e sovversivo caratterizzato dall’uso delle singole lettere riprese dai titoli dei giornali per poi essere ritagliate e separate per un risultato che rimanda per alcuni versi al movimento Futurista ed alle intuizioni di Filippo Tommaso Marinetti, ma con un’accento posto anche sulle parti visuali che rappresentano spesso immagini provocatorie e irriverenti.
La scarna semplicità dell’arte di Reid – tipicamente do it yourself – ha sempre utilizzato gli strumenti più semplici, più poveri, più elementari come la colla, la carta e le forbici. Questa scelta tipografica deriva da una necessità tanto pratica quanto ideologica: in un’epoca precedente ai software di editing, il ritaglio rappresenta un’economica alternativa ai fogli di lettere a pressione Letraset, ideali per i grafici che avevano bisogno di aggiungere testo a un’immagine. La strada intrapresa da Reid invece si adatta perfettamente all’atteggiamento anti-commerciale e rivoluzionario del movimento Punk, donando alle sue opere l’aspetto di ransom notes che rimandano il nostro immaginario alle missive anonime dei rapitori alle prime armi. Per molti studiosi è qua che deve essere situata la nascita del punk come estetica, per lo meno per quanto riguarda la grafica e l’editoria.
Le grafiche di Reid, rifiutando la tipografia tradizionale in favore di un richiamo esplicito ai lavori dada e futuristi, sono quindi dotate fin da subito di un chiaro intento provocatorio reso esplicito tramite un linguaggio grezzo, colori semplici e diretti, strappi, sovrastampe e serigrafie decostruite.
Nel 1976, dopo cinque anni passati alla guida del magazine underground Suburban Press, viene invitato da McLaren a prendere parte al progetto artistico della nascente band Sex Pistols. Egli vuole sperimentare direttamente su un gruppo i suoi studi e il suo amore per l’esistenzialismo e il situazionismo. Per certi versi si può dire che l’intero progetto dei Sex Pistols sia nato già come atto artistico. La loro immagine, apparentemente casuale, è in realtà studiata ad arte e, dal punto di vista del giovane Reid, lavorare con una band del genere rappresenta il modo migliore per trasmettere le sue idee anarchiche e nichiliste, di manifestare senza freni la sua completa avversione nei confronti delle istituzioni.
Le opere realizzate in collaborazione con la band mostrano con orgoglio il disprezzo del movimento Punk verso il virtuosismo tecnico, la regolarità, le simmetrie, l’armonia ed il funzionalismo.
Infatti, nella copertina Never Mind The Bollocks, Here’s The Sex Pistols del 1977, il primo e unico effettivo album dei Sex Pistols, l’obiettivo non è quello di sedurre l’acquirente attraverso un design piacevole e rassicurante, tinte appaganti, bensì l’opposto. Reid intende dare dignità a ciò che convenzionalmente si considera povero e sgradevole. Egli combina colori sgargianti e fluorescenti – rosa e giallo – con scritte disposte secondo le forme di quello che con lui prenderà il nome di blackmail, ovvero quello stile che per mantenere l’anonimato del mittente come detto rimanda a certe lettere anonime in cui si richiede un riscatto.
Il fronte della copertina dell’album presenta un fondo giallo sul quale sono inseriti, attraverso l’utilizzo di due font differenti, il titolo dell’album e, in rosa, il logo della band progettato da Helen Lloyd.
Le palette dei colori scelti rimanda in maniera sarcastica ad un qualsiasi prodotto dell’immaginario consumistico – pensiamo ad esempio ad una confezione di detersivo o a molti giocattoli per bambini – e dimostra quanto l’artista volesse che l’album fosse visto proprio come un prodotto dell’economia capitalista, ciò che Karl Marx avrebbe definito un feticcio. L’estetica del disco rispecchia perfettamente il concept dell’album che non aveva nessuna pretesa dal punto di vista musicale ma aspirava ad essere non meglio o peggio, ma solo spazzatura usa e getta.
Anche in seguito allo scioglimento dei Sex Pistols, avvenuto nel 1979, e il graduale tramonto del movimento punk, la storia, l’attualità e la personale visione della società di Jamie Reid continuano a manifestarsi genuinamente all’interno della sua produzione artistica essendone la componente fondamentale. L’impegno politico del grafico infatti è onnipresente e trova un nuovo sbocco musicale nel 1988 quando realizza il poster Disaster Queen e la copertina del singolo No Clause 28 per la campagna del cantautore britannico Boy George contro la cosiddetta Clausola 28, una legge secondo la quale le autorità locali erano obbligate a sanzionare tutti coloro i quali avessero promosso verbalmente o con il proprio comportamento o pubblicando materiale di qualsiasi tipo l’omosessualità.
Nel 1994, Reid collabora con il gruppo tedesco Atari Teenage Riot, esprimendo il proprio dissenso al Criminal Justice And Public Order Act, il quale prevedeva una restrizione dei diritti e maggiori sanzioni per le persone accusate di comportamenti antisociali.
Negli ultimi anni il suo mai domato impegno politico si era concentrato sulla figura di Donald Trump a cui si era ispirato per la realizzazione di due opere d’arte originali, God Save Us All e God Save the USA.
Jamie Reid è uno dei pochi esempi di un ideale – in questo caso anarchico e situazionista – che si manifesta sotto forma di immagini e viene incarnato nelle forme e scelte grafiche.
Innamorato dell’immediatezza e della facilità di utilizzo caratteristiche fotocopiatrice, Jamie Reid si è dimostrato un maestro nel dare libertà al disegno tagliando, incollando, copiando e scarabocchiando sin dal suo primo incontro con la xerox avvenuto nel lontano 1972.
Capostipite della fiorente scena DIY, Reid ha elevato ad arte anche gli errori tipici del mezzo regalandoci un’arte in cui – forse questo è l’aspetto più interessante – i frammenti sono la chiave per comprendere il messaggio complessivo. I veri e propri detriti che Reid spargeva nelle sue grafiche racchiudono 50 anni di una carriera che è stata qualcosa di più, è stata protesta, musica, arte, pensiero radicale e denuncia. Un artista, Jamie Reid, di cui già è evidente il vuoto che lascia, la mancanza dovuta alla sua capacità di non essere legato ad un luogo, ad un momento, ma di parlare dovunque e comunque a tutti. Sempre fedele al suo motto: Keep Warm, Make Trouble!