Larry era seduto, la chitarra appoggiata sulle ginocchia magre, e le parole gli venivano fuori, quasi senza pensarci, dalle profondità polverose del Texas. Era il 1958, e l’America era un gomitolo di contraddizioni, un paese che si tirava su le calze dopo la guerra ma dove il sogno si faceva ancora con gli spiccioli e la strada era maestra di vita. Larry Fuller, che di cognome faceva Curtis, stava scrivendo una canzone che sapeva di polvere e di galera, di uno che ce l’aveva messa tutta e poi si ritrovava con un pugno di mosche in mano. I fought the law and the law won, ripeteva la melodia, semplice e diretta, come un cazzotto in faccia. Non c’era bisogno di metafore complesse per capire, bastava l’esperienza di chi aveva visto troppe volte la giustizia piegarsi, o forse semplicemente rimanere impassibile, di fronte alla disperazione. Era la storia di un uomo che, nel tentativo di sbarcare il lunario, si trovava contro qualcosa di più grande di lui, qualcosa di ineluttabile. Un piccolo crimine, un furto forse, per la fame o per il desiderio di qualcosa di meglio, e poi la resa. I needed money ‘cause I had none, una frase che diceva tutto, senza fronzoli, sulla condizione di molti, su quella linea sottile tra bisogno e illegalità che, in certi contesti, era quasi invisibile.





I Bobby Fuller Four, la band di Larry, la registrarono nel 1966. Il suono era pulito, potente, con quel riverbero secco che sapeva di garage band ma anche di un rockabilly che non voleva morire. La canzone era un successo, un inno per chi si sentiva ai margini, per chi aveva provato a cambiare le cose e si era scontrato con un muro invisibile. Non era una canzone di protesta urlata, non direttamente, non come i futuri inni del ’68. Era qualcosa di più intimo, più esistenziale. Il protagonista non era un rivoluzionario, era un uomo comune, un perdente dignitoso, e questo lo rendeva universale. La legge non era un’entità malvagia, era semplicemente la legge, implacabile, impersonale. E la vittoria della legge non era una condanna morale, ma una constatazione amara.
Poi, nel 1979, arrivarono i The Clash. E lì, la canzone cambiò pelle, divenne un simbolo. Joe Strummer e Mick Jones la presero, la masticarono e la risputarono fuori con un’energia grezza, punk. Il loro sound era sporco, urgente, e le parole di Fuller, filtrate attraverso la rabbia e la frustrazione di una generazione britannica che lottava contro la disoccupazione, il thatcherismo nascente e un sistema che sembrava non ascoltare, acquisirono un significato nuovo, più ampio. I fought the law and the law won, cantato con quell’urgenza, non era più solo la storia di un ladruncolo sfortunato. Era la voce di chi si sentiva oppresso, di chi non aveva niente da perdere, di chi sfidava l’autorità non per un mero atto criminale, ma per una questione di sopravvivenza, di dignità. Il testo, nella sua semplicità, diventava un manifesto controculturale. Non era una richiesta di perdono, ma un’amara accettazione della sconfitta in una battaglia che, forse, era già persa in partenza. La legge, in quel contesto, non era solo il codice penale, ma l’intero sistema, le regole imposte da chi deteneva il potere, le convenzioni sociali che schiacciavano gli individui. I Clash non la cantavano con rassegnazione, ma con una fiera ribellione, una sorta di “sì, la legge ha vinto, ma non ci ha spezzato”. Diventò un inno per i punk, per chi voleva distruggere il vecchio e costruire il nuovo, per chi non si accontentava delle briciole.
Ci furono altre versioni, certo, ognuna con la sua sfumatura. I Dead Kennedys la fecero con il loro sarcasmo acido, i Green Day con la loro energia pop-punk, ognuno aggiungendo un tassello a quel mosaico sonoro che era diventato I fought the law. Ma il nucleo rimaneva lo stesso: l’individuo contro il sistema, la lotta impari, la sconfitta che, paradossalmente, diventa una forma di vittoria morale, di affermazione della propria esistenza.
E oggi? Oggi, mentre guardiamo il mondo che si sfilaccia, tra disuguaglianze crescenti, sistemi giudiziari che a volte sembrano occhiuti e sordi, e un senso di impotenza diffuso di fronte a forze più grandi di noi, I fought the law risuona ancora con una chiarezza disarmante. È la storia di chi si batte, in piccolo o in grande, contro l’inevitabile, contro l’ingiustizia percepita o reale. È la cronaca di un mondo in cui, spesso, le regole non sono scritte per tutti allo stesso modo, e dove la sopravvivenza diventa, a volte, una forma di disobbedienza. È un promemoria costante che, anche quando la legge vince, la storia di chi ha lottato rimane, incisa nelle pieghe del tempo, un’eco persistente di ribellione e, in fondo, di una certa, amara, ma innegabile, forma di libertà.