Allan “Gut” Terk è una di quelle figure che sembrano esistere per dimostrare che la storia della controcultura non è mai stata una linea retta, ma piuttosto una vibrazione intermittente che scorre ai margini del visibile. La sua vita — se così si può chiamare quella somma di viaggi, esplosioni e apparizioni frammentarie che attraversano gli anni Sessanta e Settanta — si muove in quella zona ibrida in cui il biker e l’artista, il delinquente e il visionario, il meccanico e il mistico si confondono fino a diventare la stessa persona.

Allan “Gut” Terk
Terk veniva dalla California, come quasi tutti quelli che hanno contribuito a inventare quell’idea di libertà tanto cara ai giovani americani degli anni Sessanta. Cresce in un ambiente in cui l’odore di benzina e quello della marijuana non sono ancora in conflitto, e in cui il desiderio di decorare un serbatoio di un’Harley-Davidson con un motivo fiammeggiante vale quanto una documento d’identità. È un autodidatta, un uomo che dipinge con le mani sporche di olio e che guarda la realtà con l’occhio deformante di chi sa che il mondo non è mai solo quello che sembra. Il soprannome “Gut” gli arriva dal suo gruppo di motociclisti, probabilmente per quella qualità viscerale, quasi carnale, che metteva in tutto ciò che faceva — come se ogni pennellata fosse un colpo diretto allo stomaco.
Negli anni Cinquanta e nei primi Sessanta entra negli Hells Angels, ma la sua traiettoria devia presto verso un’altra costellazione di outsider: quella dei Merry Pranksters di Ken Kesey, gli psichedelici nomadi che attraversano l’America a bordo del bus Furthur, iniettando LSD nei tessuti sociali e visivi del Paese. Terk non è un artista nel senso convenzionale del termine; non espone, non firma, non produce opere destinate al museo. Lui dipinge autobus, serbatoi, muri. Cose che si muovono, che spariscono. L’arte, per lui, è un’estensione della strada: il colore è benzina, e la grafica un linguaggio per comunicare con chi non si fida delle parole.

I Merry Pranksters su loro bus “Furthur”
Quando lavora ai poster psichedelici per i concerti e le manifestazioni della San Francisco underground, la sua mano si riconosce immediatamente: le linee non cercano la bellezza, ma la tensione. Il suo tratto mescola la durezza metallica del mondo biker con i vortici lisergici del periodo. È un’estetica che sembra nascere da una collisione: il rombo del motore che incontra il trip acido, il teschio e la spirale, il bitume e il colore fluorescente. Un esempio emblematico di questa sintesi è il poster per il Death of Money March del 1966, un’azione dei Diggers in cui la critica al capitalismo assumeva la forma teatrale di un funerale pubblico per il denaro stesso.

Death of Money March, 1966
Ma il suo contributo più mitologico resta la pittura del bus Furthur, quella specie di reliquia itinerante dell’epopea Prankster. Lì Terk riversa il suo universo visivo: arabeschi organici, scritte fluide, colori acidi che si dilatano come visioni. È difficile dire dove finisse la mano di Terk e cominciasse quella di altri artisti del gruppo; l’arte psichedelica era un fenomeno collettivo, una forma di scrittura caotica e condivisa. Tuttavia, si può dire che Terk fosse il tramite tra due mondi: portava nel laboratorio mobile di Kesey l’estetica rude dei motori e la violenza espressiva dei graffiti da strada.
Negli anni successivi, Allan Terk continua a oscillare tra l’arte e la marginalità. Dipinge serbatoi, realizza decorazioni per furgoni, si muove in spazi che non lasciano traccia nei cataloghi o nei musei. È un artista invisibile, e forse è proprio questa invisibilità la sua forma di resistenza. In un’epoca in cui la controcultura cominciava a essere assorbita e normalizzata, Terk rimane fedele alla sua dimensione sotterranea, quella dei freaks, dei drifters, dei sopravvissuti alle utopie.

Grafica dell’album “Vincebus Eruptum” dei Blue Cheer, 1968

Poster di Allan “Gut” Terk, 1968

Poster di Allan “Gut” Terk, 1968
Oggi, quando si prova a ricostruire la genealogia della poster art psichedelica, il suo nome non compare accanto a quelli di Wes Wilson o Victor Moscoso. Eppure, senza di lui, l’immaginario visivo della San Francisco di quegli anni sarebbe incompleto. La sua estetica è la controparte ruvida e carnale della psichedelia canonica: meno raffinata, più pericolosa. Se gli altri costruivano mondi di pura visione, Terk costruiva mondi che odoravano di benzina e paura, di asfalto bollente e allucinazione. La sua eredità è quella di un ponte tra universi apparentemente inconciliabili: i biker e i freak, i fuorilegge e i visionari. E in questo senso Allan “Gut” Terk non è soltanto un artista, ma un simbolo di quella breve stagione in cui l’arte e la vita si confondevano fino a essere la stessa cosa. Non ci sono grandi mostre retrospettive dedicate a lui, e forse non ci saranno mai. Ma basta guardare una vecchia fotografia del bus Furthur, o un manifesto ingiallito dei Diggers, per riconoscere la sua firma invisibile: un linguaggio fatto di benzina, colore e disobbedienza.

Allan ‘gut’ Terk (al centro), con Ken Kesey e Rock Scully

Poster di Allan “Gut” Terk, 1968

Poster di Allan “Gut” Terk, 1968

Poster di Allan “Gut” Terk, 1968
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