Strategie di resistenza culturale in un mondo che ingloba ogni alterità.
Negli ultimi decenni, il concetto stesso di “underground” ha subito una trasformazione profonda, riflettendo i mutamenti strutturali della società tardo-moderna. Le sottoculture, un tempo caratterizzate da spazi di aggregazione chiusi e linguaggi esoterici, sembrano oggi attraversate da un paradosso: la loro stessa esistenza è sempre più precaria proprio perché l’infrastruttura tecnologica e comunicativa globale accelera il processo di assimilazione, rendendo effimero ciò che un tempo poteva sedimentarsi in una nicchia culturale resistente. Se, in passato, le sottoculture si costituivano attraverso l’esclusione dai circuiti mainstream e l’elaborazione di codici distintivi, oggi si trovano in una condizione di perenne esposizione, dove l’occulto diviene immediatamente rivelato, il clandestino rapidamente catalogato, il dissenso riassorbito dal flusso ininterrotto di contenuti digitali.
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In risposta alla progressiva assimilazione di ogni estetica e linguaggio alternativo da parte del mainstream, emergono nuove strategie di elusione e resistenza, spesso fondate su forme di anonimato, cripticità e dispersione dell’identità. Se un tempo l’underground si strutturava attorno a spazi fisici separati—club, fanzine, collettivi chiusi—oggi la fuga assume connotati più fluidi e sfuggenti, modellati sulle dinamiche dell’iperconnessione e della sorveglianza algoritmica.
Una delle tattiche più diffuse è l’adozione di nomi collettivi, che negano il concetto stesso di autorialità individuale. Gruppi come Luther Blissett negli anni ’90 e più recentemente Claire Fontaine o Bernadette Corporation hanno dimostrato come l’identità condivisa possa essere un’arma contro la logica della personalizzazione e della celebrity culture. In ambito musicale, la scena elettronica ha visto la proliferazione di artisti che nascondono i propri volti e nomi reali (come Burial o i primi anni di Daft Punk), sottraendosi così alla spettacolarizzazione dell’individuo e spostando l’attenzione sull’opera.
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Altra strategia è quella della disidentificazione, ovvero il rifiuto della categorizzazione rigida in sottoculture riconoscibili. Se negli anni ’70 e ’80 le tribù giovanili si definivano attraverso codici estetici chiari e riproducibili, oggi si assiste a una destrutturazione di tali confini: mescolanza caotica di generi musicali, moda deliberatamente incongrua, mutazioni continue dell’identità digitale. Esempi emblematici sono i movimenti come Femboy Culture, che decostruisce i generi maschili e femminili senza mai stabilizzarsi in un’estetica precisa, o la Post-Internet Art, che utilizza e manipola il linguaggio visivo del web senza ancorarsi a un’unica forma stilistica.
Un altro fenomeno interessante è l’estinzione volontaria dall’ecosistema digitale. Alcune correnti artistiche e musicali si rifiutano di essere reperibili online, operando esclusivamente attraverso il passaparola o circuiti locali chiusi. Un esempio è la comunità rave DIY che, come i sound system degli anni ’90, continua a organizzare eventi senza traccia pubblica su social media, affidandosi solo a reti analogiche di comunicazione. Analogamente, alcuni artisti pubblicano opere fisiche senza renderle accessibili su piattaforme streaming o vendono lavori criptati accessibili solo a pochi.
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Queste strategie, sebbene diverse tra loro, rispondono a un medesimo imperativo: sottrarsi alla cattura del mainstream non attraverso un’opposizione frontale—ormai destinata all’assimilazione immediata—ma mediante una presenza elusiva, anonima, frammentaria, impossibile da cristallizzare in un’immagine definita. L’underground, oggi, non è più un luogo o un’estetica riconoscibile, ma un’attitudine di sparizione consapevole.
La questione va oltre la semplice ipervisibilità indotta dai social media: ciò che viene eroso è la possibilità stessa di un tempo sotterraneo, di un periodo di gestazione invisibile necessario affinché un fenomeno possa maturare senza subire la pressione dell’attenzione costante. Nell’epoca della viralità, ogni stile, ogni gesto, ogni gergo viene immediatamente decodificato, diffuso e spesso trasformato in merce. Questo processo, che possiamo definire di “liquefazione del sotterraneo”, rievoca l’analisi di Zygmunt Bauman sulla modernità liquida, dove ogni forma sociale diviene fluida, instabile e soggetta a un consumo immediato. Il capitalismo culturale, nel suo dinamismo accelerato, non si limita più a cooptare le estetiche ribelli con un certo ritardo storico, ma ne anticipa la formazione, predisponendo fin dall’inizio le condizioni della loro assimilazione.
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Tuttavia, la scomparsa dell’underground come lo abbiamo inteso nel Novecento non implica la fine della tensione sotterranea. Si tratta, piuttosto, di una mutazione della sua modalità di esistenza. Se le sottoculture classiche trovavano nella segretezza, nella separazione dagli spazi ufficiali e nella resistenza al sistema la loro ragion d’essere, oggi il margine si sposta in forme più evanescenti, in pratiche che sfuggono alla cattura dell’algoritmo, in comunità che si rifondano attraverso un’estetica del nascondimento e della cripticità. L’underground sopravvive in quegli interstizi che la logica della trasparenza non riesce a saturare: nell’uso di simboli indecifrabili, nella proliferazione di linguaggi in codice, nella riscoperta di modalità di espressione volutamente illeggibili per l’occhio mediatico. Più che una semplice opposizione al mainstream, ciò che emerge è una strategia di opacità, una forma di resistenza che non si manifesta frontalmente, ma si dissolve nel non detto, nell’invisibile, nell’irriducibile. Forse, dunque, il destino delle sottoculture non è quello di scomparire, ma di trasformarsi in qualcosa di meno identificabile, meno codificabile, più volatile.
Se le sottoculture tradizionali si definivano attraverso confini chiari—estetici, geografici, ideologici—oggi il loro destino sembra essere quello di dissolversi in forme meno identificabili, più mobili e fluide. Questo non significa che l’underground sia morto, ma che la sua esistenza dipende sempre più dalla capacità di sfuggire alla cattura, adottando strategie di opacità, disseminazione e temporaneità. Oltre alle Zone Temporaneamente Autonome (T.A.Z.) teorizzate da Hakim Bey, esistono altre tattiche che rispondono alla necessità di eludere il controllo culturale, tecnologico ed economico del mainstream.
Una di queste è il camaleontismo culturale, una pratica di mimetizzazione che impedisce la cristallizzazione in un’identità facilmente classificabile. Alcune sottoculture contemporanee evitano di codificarsi in stili riconoscibili, mescolando segni contraddittori o rifiutando etichette stabili. Un esempio è la scena Avant-Y2K, che gioca con l’estetica del primo internet senza mai fissarsi in un revival coerente, o il Post-Vaporwave, che muta continuamente tra ironia, nostalgia e critica sociale, rendendosi inafferrabile.
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Un’altra strategia è la distribuzione rizomatica, in cui una sottocultura non ha un centro fisso o gerarchie evidenti, ma si diffonde attraverso network decentralizzati. Questo avviene in ambiti come il cyber-underground, dove collettivi di artisti, hacker e attivisti operano attraverso piattaforme effimere, darknet e software sperimentali, rendendo difficile qualsiasi forma di tracciabilità e appropriazione. Un esempio è il collettivo Telekommunisten, che sviluppa infrastrutture comunicative alternative per sfuggire alla sorveglianza digitale.
Esiste poi la pratica della cripticità intenzionale, una sorta di “resistenza linguistica” che rende le sottoculture leggibili solo a chi possiede le chiavi interpretative giuste. Questo si manifesta in movimenti artistici e musicali che adottano simboli indecifrabili o comunicano attraverso codici astratti. Un caso emblematico è quello dei Witch House, un genere musicale che ha deliberatamente reso i nomi delle band illeggibili (con caratteri Unicode e simboli), oppure le sottoculture nate su Discord e Telegram, dove i contenuti vengono diffusi con terminologie volutamente oscure per rimanere fuori dal radar del mainstream.
Infine, una delle più efficaci forme di sopravvivenza è la retroazione negativa, ovvero il rifiuto della crescita e della visibilità come valori positivi. Alcune comunità artistiche rifiutano deliberatamente di espandersi, chiudendosi in circuiti iper-locali o rendendo l’accesso estremamente selettivo. La scena Noise giapponese, per esempio, ha sviluppato un ecosistema dove i concerti sono eventi quasi segreti, senza promozione, e i dischi vengono stampati in copie limitate, in contrasto con la logica dell’iper-produzione digitale.
Queste strategie, pur diverse, convergono nella necessità di evitare l’assorbimento immediato. L’underground contemporaneo non si oppone frontalmente al mainstream, ma lo aggira, si sottrae, si dissolve prima di poter essere definito. Più che una categoria estetica o sociale, diventa una pratica di spar
Nel panorama iperconnesso in cui ogni gesto estetico rischia di essere immediatamente metabolizzato dall’industria culturale, la vera sfida è trovare nuovi spazi di clandestinità simbolica, zone d’ombra in cui l’underground possa continuare a esistere senza diventare, istantaneamente, un hashtag.
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