Sono molto felice di questa intervista che ho fatto a Jan Robert Leegte, artista che si connota per una sua forte identità teorica che rappresenta al meglio quella forma ibrida di artista [iper] contemporaneo che si muove fra il tecnicismo dei nuovi media e la voglia di indagare il senso ultimo dei fenomeni.
Buona lettura.
Jan Robert Leegte artista nato nel 1973 nei Paesi Bassi che vive e lavora ad Amsterdam, è uno dei primi artisti olandesi a lavorare su e per Internet dagli anni Novanta.
Inizialmente studia per Architettura presso l’Università di tecnologia di Delft per poi passare all’Accademia Willem de Kooning a Rotterdam. Qui ha studiato Belle Arti e Interaction Design.
Nel 2002, ha spostato la sua attenzione principale sull’implementazione di materiali digitali nel contesto dello spazio fisico della galleria, con l’obiettivo di collegare il mondo dell’arte online con il mondo dell’arte della galleria, realizzando stampe, sculture, installazioni, disegni e proiezioni, collegandosi ai movimenti storici come la land art, il minimalismo, la performance art e il concettualismo.
Come artista Leegte indaga da sempre la realtà e le dinamiche dei nuovi materiali e linguaggi proposti dal Computer e dagli altri media digitali. I menù a tendina di selezione di Photoshop, le barre di scorrimento, Google Maps, il codice e il software vengono sezionati per comprenderne la lor natura ontologica.
Oltre alla sua attività artistica, oggi Leegte insegna alla Royal Academy of Arts all’Aia e presso l’University of the Arts (ArtEZ) di Arnhem.
Il suo lavoro è stato esposto in numerose gallerie internazionali quali la Whitechapel Gallery di Londra, lo Stedelijk Museum di Amsterdam, il ZKM di Karlsruhe etc.
Attualmente è rappresentato dalla Upstream Gallery Amsterdam.
Ciao Jan,
e prima di tutto grazie di aver accettato il mio invito per questa chiacchierata.
Direi di cominciare il nostro percorso partendo da uno sguardo generale sulla tua arte per poi passare al particolare. Il primo aspetto di cui mi piacerebbe chiederti riguarda il concetto di inframince. Il termine, inventato da Marcel Duchamp per descrivere “una presenza effettiva e contemporaneamente sfuggente”.
Trovo che molti dei tuoi lavori si possano collocare proprio in questo tipo di contesto: uno spazio inaccessibile e per questo affascinante, che nel tuo caso può essere declinato in molteplici forme: tra realtà e illusione, tra astrazione e ornamento, tra virtuale e reale, tra architettura e arte fra l’immaterialità del linguaggio digitale e la fisicità del reale.
Perché ti affascina così tanto indagare proprio questa ambiguità e che tipo di significato le attribuisci?
Questo è il fulcro della mia passione per il modo in cui relazionarmi con la vita/la realtà stessa. Il computer in rete è la musa che seziono per trovare la sua natura ontologica, ma molto di ciò che scopro riecheggia i principi della realtà stessa. E questa ambiguità è ovunque. Credo che postulare questi opposti crei uno spazio intermedio che apre nuove prospettive, esperienze più dirette e una conoscenza più intuitiva. Nella mia esperienza, inizia già con un conflitto tra l’emisfero sinistro e l’emisfero destro del cervello. Come guardare le cose in modo razionale, ma anche da un punto di vista più intuitivo, somatico. Poi c’è la passione per la tecnologia che ho. Il computer secondo me è all’altezza dell’invenzione del fuoco e dell’elettricità. Un substrato fondamentalmente nuovo che sta cambiando il percorso dell’umanità per sempre e fondamentalmente. Ma la passione per la natura è altrettanto profonda, e sono in conflitto. L’ultima mostra personale che ho realizzato per la Upstream Gallery si intitolava Inside | Outside. Questo spettacolo ha esaminato varie dualità, uomo/macchina, input/output, natura/cultura, ecc. Lo spettacolo ha esaminato i diversi punti di prospettiva da umani e computer.
Entrambe le entità si stanno allontanando a un ritmo esponenziale. Un altro sondaggio è stato lo spettacolo The Digital Weird che ho realizzato in collaborazione con arebyte a Londra. Qui il concetto di strano, descrive perfettamente questo nuovo spazio intermedio. Uno spazio con cui sento che ci sia un grande valore da trovare.
Nella tua opera dal titolo Clear Obscure sviluppi questa dialettica facendo espressamente riferimento al linguaggio pittorico rimodulandolo attraverso quello del digitale e di Internet in particolare. Si evidenzia così quello che, in altri contesti, è il concetto di Remediation che Jay David Bolter ha coniato per descrivere la rappresentazione di un medium in un altro, ovvero l’utilizzo di alcune caratteristiche tipiche del primo all’interno del secondo. In ambito artistico la traslazione di un “oggetto” da un media all’altro realizza una nuova opera d’arte e quindi si potrebbe sostenere – come hai sostenuto in altre interviste – che è il media che crea l’opera attraverso la “natura performativa del computer” e non più l’artista. Pensando al tuo lavoro dal titolo In the Blink of an Eye del 2020, in cui mostri visivamente la capacità di calcolo uno smartphone nel breve istante in cui un umano sbatte le palpebre, mi viene da chiederti cosa pensi del ruolo che ha oggi l’artista che appare sempre più un “direttore d’orchestra che gestisce e coordina” il lavoro di altri (le macchine) e non è più direttamente creatore?
Ci sono due aspetti da tenere in considerazione: da un lato, il discorso sul conduttore come artista non è nuovo, quindi secondo me non è un problema contemporaneo. L’unicità del lavoro con i computer è l’esecuzione di programmi come atto performativo. Questo passaggio dal testo (eseguibile) al lavoro in esecuzione è molto eccitante e ha una somiglianza che i drammaturghi hanno con l’opera teatrale. Sebbene la materialità del computer sia completamente nuova. L’altro lato è che il mio lavoro è un’espressione dei miei sentimenti. Non c’è molta differenza nel principio del fare lavoro. Cerco una certa tensione per esprimere i miei sentimenti personali in relazione alle mie esperienze ed esistenze. Visto così il ruolo non è cambiato.
Partendo dall’esempio del lavoro svolto da Steve Jobs nel perfezionamento delle interfacce Apple, hai più volte insistito sul concetto di Trasparenza nei processi informatici che si è andata smarrendo o, meglio, che è stata sempre più volutamente nascosta nel tentativo di semplificare al massimo l’user experience a discapito della conoscenza del processo stesso. Alcuni studiosi dei cosiddetti nuovi media si spingono oltre sostenendo che più tentiamo di computare il mondo, più il mondo ci appare complesso – tanto da risultarci del tutto incomprensibile. Qual’è il tuo punto di vista su questo che può apparire un paradosso ma che, in definitiva, è ciò che sembra avvenire oggi se pensiamo alle dinamiche delle piattaforme social, alla virilità di certe teorie etc. ?
Completamente. Personalmente non ho mai capito cosa sia fondamentalmente il computer in rete. Questa esplorazione per ottenere una maggiore comprensione è al centro del mio lavoro. Sono dell’opinione che nessuno capisca veramente la natura della macchina, ma si impegni solo superficialmente con essa, a causa della “trasparenza” propagata dall’industria tecnologica. Ma anche perché il computer in rete è così alieno rispetto ai media che abbiamo inventato prima, non possiamo coglierne la natura. E a causa della seduzione delle applicazioni non ci interessa molto. Quindi le dinamiche di cui parli, destabilizzazione delle democrazie, disgregazioni, diffusione di teorie assurde, sono tutte emanazioni di una nuova realtà di questa incompresa entità. Non potevano essere prevenuti, ed erano anche imprevisti. Non credo nei grandi cattivi governi o nelle corporazioni. Queste trasformazioni sono più grandi di chiunque altro e fanno eco alla relazione che stiamo trovando con questa entità attuale, nel bene e nel male. Ciò non implica che non dovremmo impegnarci di più nel governare dove vogliamo andare. Ma alla base c’è questa entità che è fuori dalla nostra portata.
Nella tua opera Drawing a Button del 2020, sviluppi il concetto del disegno come atto performativo che si manifesta con un’espressione diretta del corpo sulla carta, la pressione o il clic di un pulsante. Ogni atto performativo che realizziamo nella nostra quotidiana interazione con la tecnologia lascia una traccia e quindi va ad alimentare un database di informazioni sempre più esteso e pervasivo tanto che alcuni studiosi hanno parlato di Docusphere per descrivere la nostra contemporaneità. Cosa ne pensi e quali soprattutto sono i rischi e le opportunità di una società che “registra” qualsiasi nostro comportamento?
I rischi sono enormi. Dovremmo assolutamente respingere questo. Ancora una volta, le aziende non hanno il pieno controllo di ciò che fanno, ma raccogliendo tutti questi dati e facendo in modo che gli algoritmi li elaborino, stanno giocando con il fuoco. È come fare esperimenti con virus biologici in laboratorio. L’ecosistema del computer in rete è molto complesso. Con hacker, intelligenza artificiale, set di dati, algoritmi, API, ecc., i risultati della produzione di queste informazioni sono imprevedibili. Non dovremmo accettare che ciò avvenga con i nostri dati privati.
Muovendoti in costante e stretto rapporto con la tecnologia, la tua arte potrebbe essere definita come un’analisi del concetto di Interfaccia. La nostra interfaccia con il mondo, ma anche con i nostri simili, con la nostra memoria e la nostra immaginazione oggi è il software che, di conseguenza, ha un impatto sui nostri comportamenti anche quando questi ci appaiono del tutto naturali. Quali credi siano le conseguenze più interessanti (o pericolose) di un simile mutamento che potremmo definire antropologico?
Nel mio lavoro cerco di evitare le conseguenze sociali di questo argomento. Altri sono molto più bravi in questo. Il mio lavoro si concentra maggiormente sul rapporto fenomenologico diretto con il computer e la sua interfaccia. Mi interessa di più cos’è l’interfaccia, come la modelliamo, come troviamo un modo per interagire con la macchina. In che modo questo è diverso dall’interfacciarsi con gli altri del mondo? Abbiamo costruito un’interfaccia cognitiva per affrontare la realtà, il ronzio di quark/campi di Higgs/elettroni e simili. E anche questi concetti fanno parte dell’interfaccia. In che modo l’interfaccia del computer è un’estensione di questa interfaccia cognitiva come l’abbiamo creata noi stessi. Da quel punto è del tutto naturale che ci stiamo dirigendo verso un metaverso. Stiamo solo estendendo la nostra interfaccia vecchia di miliardi di anni alla tecnologia. Avvicinandomi a questo in modo più fenomenologico, sono più interessato a ciò che è proprio davanti a me piuttosto che a ricreare ciò che già sappiamo.
Uno degli aspetti più affascinanti di Internet è il suo potenziale essere sterminato, potremmo dire addirittura che si tratti di uno spazio inconcepibile perché infinito. Se penso a Mountains and Drop Shadow e a altri tuoi lavori, intravedo l’utopico tentativo di rimettere questo infinito in contatto con la finitezza della materia. Penso a questo quando sottolinei il profondo fascino che esercita su di te la Land Art che, in certe sue tendenze, insegue proprio questo obiettivo di racchiudere all’interno di un perimetro chiaro e delimitato qualcosa che invece non ha confini. Possiamo definire la tua una sorta di sublimazione dell’infinito, una ricerca di fornire almeno un’unità di misura spaziale di Internet o cos’altro?
Sì, ottima domanda.
A me interessa camminare sui bordi delle profondità insondabili della realtà, anche se nel mondo fisico o computazionale. Il mio lavoro a volte può sembrare rigido, perché è esattamente quello che faccio. Recinto di zone molto nette per creare un’ancora da cui guardare nel profondo.
Grazie mille Jan e a presto!
02.12.2021