Una delle regole principali della grafica psichedelica, anche per la sua stessa natura di estetica visionaria e destabilizzante, è quella di un utilizzo a volte estremo e spinto al limite dell’utilizzo del colore.
Ma come ogni regola che viene presa come stereotipo, esistono poche ma per questo importanti eccezioni. Quella di cui vi parlo oggi è rappresentata da un artista che, nella sua carriera, ha fatto del bianco e nero una vera e propria devianza stilistica. Si tratta di Lee Conklin, artista noto per la sua appartenenza al gruppo di artisti che a partire dalla fine degli anni ’60 iniziano a rivoluzionare la poster art.
Conklin, nato a Englewood Cliffs, nel New Jersey nel 1941, frequenta la Spring Valley High School di New York e il Calvin College di Grand Rapids, nel Michigan dove inizia a lavorare come fumettista nel giornale del college fino al 1965 quando viene chiamato a prestare servizio presso l’esercito degli Stati Uniti.
Sulla scia dei lavori dei famosi Big Five di San Francisco, Conklin, non appena terminato il servizio militare, inizia nel 1968 a produrre poster per il Fillmore West, storico locale rock and roll di San Francisco, in California, gestito da Bill Graham dal 1966 al 1971.
Il nome, che diventa leggendario negli Anni Sessanta, deriva dall’incrocio tra le due strade centrali, Fillmore Street e Geary Boulevard, dove era situata la Sede degli uffici di Graham dal 1966 al 1968.
Oggi, proprio in quel famoso incrocio, c’è un concessionario di automobili ma dal Giugno 2018, nei due piani superiori dell’edificio è stato riaperto un locale per concerti chiamato SVN West.

Nel 1972 si trasferisce a New York, lasciando per un lungo periodo la poster art dedicandosi ad altri progetti. Torna a fare l’artista a tempo pieno nel 1990 e attualmente vive nella California centrale con sua moglie e gestisce la sua pagina Facebook dopo aver mollato il suo blog.
Tornando alla sua fase in rigoroso bianco e nero, arriviamo alla rivista oramai introvabile in versione cartacea, dal titolo Psychedelic Review edita dal 1963 al 1971 da quello che oggi è il MAPS, Multidisciplinary Association for Psychedelic Studies che ha il merito di aver archiviato in versione digitale l’intero catalogo della rivista.
Psychedelic Review è stato la prima rivista ad affrontare seriamente e scientificamente quello che stava diventando un fenomeno diffusissimo fra i giovani, ovvero l’esperienza di alterazione e espansione della coscienza attraverso sostanze come l’LSD, la psilocibina e la mescalina.
Pubblicato inizialmente dall’International Federation for Internal Freedom, Psychedelic Review era il prodotto teorico degli studi di un gruppo di medici guidati dalla coppia Timothy Leary e Richard Alpert, che si è posto l‘obiettivo di aumentare il controllo dell’individuo sulla propria mente.
Il termine Psychedelic deriva dalle parole greche psykhé (anima) e dêlos (chiaro), nel senso di allargamento della coscienza.
Nel primo editoriale della rivista si affermava che “un ritorno all’orientamento interiore non è affatto nuovo. Da Platone ad Assia, i filosofi occidentali hanno scritto e studiato esperienze che vanno oltre la nostra oscura percezione quotidiana della realtà.
Proprio la percezione distorta della realtà ha sconvolto l’estetica degli Anni Sessanta, dal cinema alla musica, fino alla grafica e, di conseguenza, all’editoria con opere stravolgenti e lettering illeggibili.
Di queste nuove tendenze, hanno beneficiato artisti come Lee Conklin e altri che hanno prodotto in questo periodo opere che uniscono il simbolismo magico al surrealismo.
Nello specifico caso di Conklin, e della sua collaborazione con Psychedelic Review, è interessante analizzare e apprezzare l’originale ed innovativo utilizzo del bianco e nero, totalmente in contro tendenza con il mood ultra cromatico del tempo che Conklin ha continuato poi ad utilizzare in alcuni dei suoi poster.
A distanza di oltre cinquanta anni, le opere di questa serie di Conklin restano rari esempi di arte psichedelica monocromatica e dimostrano come la grafica psichedelica non si può, come banalmente e generalmente viene fatto, ricondurre essenzialmente alla forza dei colori.